La designazione del nuovo ministro del Lavoro e delle Politiche sociali non è stata oggetto di particolari rivendicazioni da parte delle forze politiche della nuova maggioranza parlamentare, nonostante questo dicastero si ritrovi coinvolto in prima linea nella predisposizione di numerosi provvedimenti da inserire nella Legge di bilancio che deve essere approvata entro la fine dell’anno. Quali che siano le motivazioni, la scelta del nuovo Ministro è ricaduta su una figura tecnica, la Presidente nazionale del Consiglio dell’ordine dei consulenti del lavoro Marina Calderone, una persona apprezzata negli ambiti delle rappresentanze del mondo del lavoro e che conosce in profondità la natura dei problemi che sarà chiamata ad affrontare.
Tutte le previsioni economiche danno ormai per scontata un’inversione del ciclo economico con riflessi molto negativi sulla produzione e sull’occupazione. Si ripresentano i rischi di un’ondata di richieste per gli interventi di sostegno al reddito e di scelte rivolte a contenere la svalutazione dei salari e delle pensioni. Fin da subito il Governo sarà chiamato a reperire risorse per dare continuità alla gamma dei provvedimenti adottati dal precedente Esecutivo, e che sono in scadenza, per contenere l’impatto dei costi energetici (riduzione delle accise sui carburanti, crediti d’imposta per i pagamenti delle bollette per le imprese, bonus per i salari e le famiglie meno abbienti) che hanno già comportato una spesa di 62 miliardi, con un nuovo decreto destinato ad anticipare una parte degli interventi che troveranno continuità nella nuova Legge di bilancio 2023. Giova ricordare che i decreti aiuti approvati dal Governo Draghi sono stati finanziati dai maggiori introiti fiscali registrati nel corso del 2022 legati ai tassi di crescita dell’economia e dell’inflazione nell’ambito dei vincoli imposti per il deficit di bilancio. Una condizione destinata a esaurirsi nei prossimi mesi.
La nuova legge di bilancio 2023 dovrà reperire ulteriori risorse (poco meno di 40 miliardi in base alle stime della Ragioneria dello Stato e dell’ Ufficio parlamentare per il bilancio) per far fronte alla rivalutazione degli oneri dovuti: all’indicizzazione delle pensioni alla crescita dell’inflazione, ai rinnovi contrattuali del personale della Pubblica amministrazione statale, al proseguimento per tutto l’anno venturo degli sgravi contributivi sui salari (cuneo fiscale) avviati nella seconda parte dell’anno in corso e ad altri interventi non differibili legati a impegni assunti in ambito internazionale. Infine, dovranno essere assunte decisioni sui provvedimenti di anticipazione dell’età di pensionamento (Quota 102, Ape social, Opzione donna) che scadono il 31 dicembre 2022.
Le conseguenze finanziarie delle decisioni che potremmo definire con il termine “obbligate” lasciano pochi margini alla riduzione delle spese, tali da consigliare l’accantonamento di buona parte delle promesse avanzate dal centrodestra nel corso della campagna elettorale (flat tax, aumento delle pensioni minime e consolidamento degli anticipi dell’età pensionabile rispetto alle previsioni della Legge Fornero) peraltro formulate in modo grezzo per celare le diverse sensibilità interne ai partiti della coalizione. Dove, e come, ridimensionare le aspettative generate nella campagna elettorale rappresenta il primo scoglio da superare per la tenuta del nuovo Governo.
Quelle sulla materia dell’anticipazione dell’età di pensione risultano le più esposte dal punto di vista politico alle difficoltà di trovare una sintesi interna alla maggioranza, destinate a condizionare la qualità delle future politiche del lavoro. Un brillante articolo di Alberto Brambilla (“Non riaprite la finestra”, L’Economia, inserto del Corriere della Sera del 24 ottobre) documenta in modo puntuale come gli obiettivi della riforma Fornero, in particolare l’ancoraggio della pensione di vecchiaia ai 67 anni di età e di quella di anzianità anticipata ai 42 anni e 10 mesi aggiornabili in modo automatico sulla base dell’incremento delle aspettative di vita, siano stati completamente vanificati da una serie infinita di deroghe e provvedimenti nella direzione opposta che riportano l’età media effettiva di pensionamento a 61,6 anni. Contribuendo in modo negativo all’incremento della spesa pensionistica, alla riduzione del numero potenziale degli occupati over 50 e al peggioramento del rapporto tra lavoratori attivi e pensionati. Quest’ultimo è l’indicatore principale della sostenibilità del sistema previdenziale nel lungo periodo. Quello più esposto alla riduzione della popolazione in età di lavoro prevista per i prossimi anni.
Questo tema apre una finestra sulle politiche da intraprendere per offrire soluzioni alle due criticità principali del nostro mercato del lavoro e del nostro welfare: il rilevante sottoutilizzo delle risorse umane in età di lavoro e la stagnazione della produttività che compromette la possibilità di far crescere i salari e i redditi.
L’intenzione dichiarata della coalizione di centrodestra, confermata nelle linee programmatiche del nuovo Governo illustrate dalla Presidente Meloni alle Camere, è quella di marcare le finalità “produttivistiche” delle politiche del lavoro incentivando fiscalmente le quote di salario agganciate agli aumenti di produttività, il welfare aziendale e le imprese che incrementano il numero degli occupati. Con una parallela e progressiva riduzione dei sussidi al reddito. Intenzioni che non sono ancora state dettagliate in proposte, fatta salva la manifesta intenzione di escludere dai benefici del Reddito di cittadinanza le persone in grado di lavorare.
Un cambio di agenda che mette nell’angolo l’intero impianto delle politiche del lavoro impostate dal ministro del Lavoro Orlando durante il Governo Draghi: la generalizzazione dello strumento delle casse integrazioni, che si sta rivelando come ampiamente prevedibile, estremamente oneroso e di difficile gestibilità; l’introduzione di un salario minimo legale; la riduzione dei margini di flessibilità per l’utilizzo dei contratti a termine da parte delle imprese; un’evoluzione delle politiche attive per il lavoro baricentro sul potenziamento dei centri pubblici per l’impiego e finanziamenti aggiuntivi per la formazione dei lavoratori (Pnrr).
Le proposte avanzate dall’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando avevano riscontrato una sostanziale opposizione delle associazioni imprenditoriali e un sostanziale consenso della Cgil e della Uil, favorevoli a costruire un rapporto privilegiato con il Governo alternativo a un percorso di condivisione di obiettivi, strumenti e contenuti tra le parti sociali. Uno scenario che viene completamente rovesciato nell’impostazione del nuovo Governo palesemente intenzionato a valorizzare il ruolo autonomo e sussidiario delle parti sociali sul versante della regolazione dei rapporti di lavoro, delle politiche salariali e degli interventi sul mercato del lavoro. Ma il nodo di fondo rimane lo stesso. In assenza di una dichiarata disponibilità a costruire una condizione di dialogo tra le parti sociali e le istituzioni viene meno la condizione per far convergere una massa critica di interventi rivolti a rimediare le criticità del nostro mercato del lavoro.
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