L’ultima fotografia del mercato del lavoro disponibile nel 2019 è della fine del terzo trimestre e ci fornisce la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione residente in Italia. I residenti totali sono 59 milioni e 891 mila. Di questi 23 milioni e 485 mila sono occupati, due milioni e 342 mila sono in cerca di occupazione. Inattivi in età lavorativa (15-64 anni) sono 13 milioni e 268 mila, mentre in età non lavorativa sono 20 milioni e 794 mila (di questi 7 milioni 925 mila sotto i 15 anni e 12 milioni e 870 mila con più di 64 anni).
Già così appare evidente uno degli squilibri strutturali del nostro mercato del lavoro. Vi partecipa, fra occupati e disoccupati, una minoranza della popolazione, pari solo al 43,1% del totale. È da qui che deriva poi il basso tasso di popolazione attiva in età lavorativa nel nostro Paese rispetto ai risultati dei principali paesi europei. Più di dieci punti in percentuale ci separano dall’obiettivo condiviso dall’Europa e per la forza lavoro femminile il ritardo è ben più ampio.
Un’altra annotazione che appare già da questi primi dati è che la sostituzione giovani/vecchi è bloccata. Le età non lavorative vedono un prevalere delle coorti anziane che sopravanzano di molto i giovani che sono nella fase di scuola obbligatoria. Abbiamo imparato a sviluppare metodi per allungare la vita delle persone, ma sempre meno partecipiamo al dare vita alla popolazione futura, con uno squilibrio che impatta sul mercato del lavoro e sul sistema di welfare generale che dovrà garantire assistenza e pensioni alle persone in età avanzata.
Fra chi è inattivo ed è in età lavorativa solo un quinto dichiara che non cerca attivamente lavoro, ma sarebbe disposto, a fronte di un’offerta concreta, ad accettare un’occupazione. È una quota di circa tre milioni di persone che potrebbe essere riattivata da politiche attive del lavoro realmente efficaci nel perseguire un aumento del tasso di occupazione complessivo. Guardando più da vicino chi al mercato del lavoro partecipa emerge come i disoccupati che sono in entrata (non hanno mai lavorato) sono il 25% circa del 3,9% di disoccupati totali. Il 75% sono persone che hanno perso il lavoro e sono alla ricerca di una nuova occupazione.
Per quanto riguarda gli occupati, ben 5 milioni e 302 mila sono lavoratori indipendenti. Quasi il 9% del totale della popolazione italiana è imprenditore, molti solo di se stessi, ma vi sono anche tanti titolari di qual grande numero di micro e piccole imprese che caratterizzano il nostro tessuto produttivo. È una nostra caratteristica peculiare e non è sempre un dato negativo. La capacità di fare rete e di reinventarsi possibilità di stare sul mercato ha fornito al nostro sistema produttivo una flessibilità, nelle crisi, che ha permesso di gestire i passaggi con meno tensioni sociali. Il 30,4% (18 milioni e 183 mila persone) rappresenta invece il totale dei lavoratori dipendenti.
Il lavoro dipendente non è più un’unica famiglia con un solo contratto che fotografa il lavoro come posto fisso. Anche con una scomposizione per grandi famiglie emerge che con contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno sono solo il 67,5% del totale dei lavoratori dipendenti. Sono con contratto permanente ma a tempo parziale il 15% ed è un numero in forte crescita negli ultimi anni. È vero che è in media con quello dei paesi europei con cui è confrontabile la nostra economia, ma è anomalo il prevalere del part-time involontario (aggettivo gentile per definire un contratto di lavoro subito dal lavoratore, o meglio sempre più spesso dalla lavoratrice). I lavoratori dipendenti che restano (17,5%) sono con contratto a termine: il 12,2% a tempo pieno e il 5,3% a tempo parziale.
Rispetto a un anno prima non vi sono state grandi variazioni, il dato che cambia maggiormente è dato dalla crescita di tre punti dei lavoratori a part-time e una leggera crescita dei contratti a tempo determinato.
Sono due gli indicatori che ci dicono che le misure sbandierate come interventi che avrebbero dovuto dare più dignità a chi lavora non hanno funzionato. Anzi, i limiti posti ai contratti flessibili abbinati all’abolizione dei voucher hanno rimandato verso il mercato grigio/nero parte dei lavoratori e non ha migliorato la qualità del lavoro per chi è rimasto sul mercato. Anche i primi dati disponibili sulle offerte di lavoro avanzate a chi ha ottenuto il reddito di cittadinanza non aprono prospettive ottimistiche. D’altro canto si è agito contraddicendo alcuni principi di fondo delle politiche del lavoro.
In questa fase cresce la domanda di flessibilità, perché i lavori flessibili non diventino fonte solo di precarietà vi è bisogno di prevedere forme contrattuali e di tutela che seguano l’evolversi dei rapporti fra domanda e offerta che si instaurano sul mercato. Cercare di irrigidire le forme esistenti, o peggio cercare di ridurre a una la forma di contratto valida per tutti, porta a precarizzare tutti i nuovi rapporti di lavoro e diminuisce le tutele offerte ai lavoratori. È come per quelle pubbliche amministrazioni che pretendono il massimo ribasso in gare di servizi ad alto tasso di manodopera. Aprono così le porte a forme di super sfruttamento che si avvicinano a un nuovo schiavismo, ma si rifiutano di pensare a forme di appalto diverse che tutelino i lavoratori e fissino prezzi equi di mercato.
Si sono poi immaginate politiche attive del lavoro non come antidoto alla disoccupazione, ma come risposta al disagio sociale e alla povertà. Si è così determinata una povertà di offerta di servizi per i disoccupati e servizi sbagliati per chi ha problemi di fragilità sociale oltre a quelli lavorativi.
Insomma, lasciamo un mercato del lavoro debole e con una scarsa dotazione di strumenti per dare più occupazione e più lavoro di qualità. L’augurio è per un 2020 che sappia valorizzare il lavoro e rilanciare l’impegno per lo sviluppo del Paese.