Nel corso del 2020, la recessione economica innescata dalla crisi sanitaria legata al Covid-19 ha avuto, come noto ed evidente, un forte impatto sul mercato del lavoro italiano e globale. Le perdite occupazionali, sebbene frenate dal blocco dei licenziamenti e dal massiccio ricorso agli strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro (le varie forme di Cassa integrazione più o meno in deroga nel nostro Paese) sono state molto significative.
A partire dal secondo trimestre dello scorso anno, la ripresa ha, tuttavia, permesso di recuperare i livelli occupazionali pre-pandemia (+69 mila occupati tra il IV trimestre 2019 e il III trimestre 2022 secondo Istat).
La ripresa occupazionale post-pandemica, così come per la doppia recessione del 2008-2009 (crisi finanziaria internazionale e Grande Recessione) e del 2011-2012 (crisi dei debiti sovrani), si è, evidentemente, caratterizzata per una marcata crescita del lavoro dipendente a tempo determinato rispetto a quello dei “posti fissi”.
In particolare va evidenziato come, nella medesima prospettiva, anche il lavoro part-time, più o meno volontario, abbia conosciuto una robusta crescita a partire dalla crisi del 2008. Si pensi che tra il 2008 e il 2021 il numero di occupati a tempo parziale è cresciuto di 888 mila unità, mentre, nello stesso periodo, gli occupati a tempo pieno si sono ridotti di 1,4 milioni facendo sì che l’incidenza dell’occupazione part-time sia passata dal 14,3% a ben il 18,6%.
Opportuno è tuttavia sottolineare come il lavoro a tempo parziale sia cresciuto principalmente nella sua variante involontaria. La quota di occupati part-time involontari è di fatti aumentata, tra il 2008 e il 2021, di ben 21,5 punti percentuali, passando dal 41,3% ad addirittura al 62,8%.
In questo contesto generale si ritiene, quindi, come peraltro fa un recente rapporto Anpal che analizza i rapporti tra la dimensione del lavoro e quella familiare, che i mutamenti del mercato del lavoro associati alla crescente diffusione delle occupazioni caratterizzate da ridotta intensità lavorativa e da instabilità occupazionale possono essere meglio indagati avendo come riferimento dell’analisi non il singolo occupato, bensì i diversi nuclei familiari.
Emerge così che delle 25,7 milioni di famiglie residenti in Italia nel 2021 poco più di due terzi (17,5 milioni) ha almeno un componente appartenente alle forze di lavoro allargate (ovvero comprensive pure degli inattivi che pur non cercando un lavoro si dichiarano disponibili a svolgerlo se contattati). In nove casi su dieci (15,4 milioni) è presente almeno un componente occupato. Sono invece solo 6,2 milioni le famiglie con ben due o più occupati. Di converso, risultano, altresì, 2 milioni (11,9% del totale delle famiglie) i nuclei senza alcun componente occupato. Questi ultimi restano, quindi, quelli a maggior rischio di povertà ed esclusione sociale sia per i membri almeno potenzialmente “attivi” di oggi, sia per le componenti più giovani coinvolte, ad esempio, in percorsi scolastici.
La politica è chiamata, in questo quadro, a partire dall’Esecutivo, a trasformare gli slogan elettorali in politiche effettive a favore delle famiglie tese, anche, e soprattutto, attraverso un lavoro “dignitoso”, a sbloccare nuovamente l’ascensore sociale che condanna, oggi, troppo spesso i ragazzi che nascono in famiglie povere e/o dove spesso un’occupazione decente è solamente un miraggio.
Far tornare, insomma, possibile, se non addirittura normale, il motto, o l’auspicio, cantato in una vecchia canzone di lotta per cui anche l’operaio (e perché non il disoccupato) possa desiderare un figlio dottore.
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