“Eppur si muove” verrebbe da dire a commento dei dati dell’Istat sull’occupazione nel mese di luglio, resi noti (ancorché provvisori, ma destagionalizzati) il 1° settembre. Il commento sintetico dello stesso Istituto di Statistica spiega in poche righe la situazione. “Dopo quattro mesi di flessione, a luglio 2020, il numero di occupati torna a crescere, soprattutto tra le donne e i lavoratori con più di 35 anni; continua il recupero delle ore lavorate pro capite e l’espansione del segmento di persone in cerca di lavoro. Ciononostante, da febbraio 2020 il livello dell’occupazione è sceso di quasi 500 mila unità e le persone in cerca di lavoro sono cresciute di circa 50 mila, a fronte di un aumento degli inattivi di quasi 400 mila. In quattro mesi, il tasso di occupazione perde oltre un punto, mentre quello di disoccupazione, col dato di luglio, torna sopra ai livelli di febbraio”.



Quando si risale dopo una caduta improvvisa è sempre bene apprezzare anche i piccoli spostamenti, persino la diminuzione degli inattivi, che costituiva il dato più clamoroso all’inizio del lockdown, evidenzia una maggior dinamica nel mercato del lavoro derivante dall’interesse delle persone a rimettersi in gioco dopo mesi di inattività. La statistica a volte gioca dei brutti scherzi, al punto che il numero dei disoccupati aumenta quando diminuisce quello degli inattivi. Non a caso, all’inizio della crisi la percentuale dei disoccupati era bassa a fronte di un’esplosione degli inattivi.



A luglio 2020 il numero di ore pro capite effettivamente lavorate, calcolato sul complesso degli occupati, prosegue nella tendenza all’aumento. Il livello di luglio, pari a 33,1 ore, è solo di 1,2 ore inferiore a quello registrato a luglio 2019. Per i dipendenti il gap rispetto a luglio 2019 è ancora più ridotto (-0,8 ore). Ma c’è il trucco: i livelli di occupazione nascondono un massiccio ricorso alla cassa integrazione (siamo nell’ambito delle altre 18 settimane “coperte” dal Governo negli ultimi provvedimenti durante le quali il rapporto di lavoro rimane attivo) e gli effetti del blocco dei licenziamenti economici individuali e collettivi. Di conseguenza aver perso 500mila posti di lavoro da febbraio è molto significativo.



A pagare il conto sono stati soprattutto i contratti a termine: il che trova corrispondenza nei trend riguardanti l’occupazione giovanile. L’aumento del tasso di occupazione registrato a luglio, rispetto al mese precedente, coinvolge, infatti, tutte le classi d’età, così come l’aumento del tasso di disoccupazione, particolarmente marcato tra i 15-24enni (+1,5 punti). Trasversale a tutte le classi d’età anche la diminuzione del tasso di inattività. La crescita degli occupati nell’ultimo mese coinvolge esclusivamente i lavoratori dipendenti, che aumentano dello 0,9% tra i permanenti e dello 0,3% tra quelli a termine; ancora in diminuzione gli autonomi (-1,2%). Il calo degli occupati registrato nei dodici mesi non riguarda i permanenti, che crescono dell’1,2% (+181mila), ma soltanto i dipendenti a termine (-16,2% pari a -498mila) e gli indipendenti (-4,5% pari a -239 mila). Le ripetute flessioni congiunturali – sostiene l’Istat – registrate a partire da marzo 2020 hanno contribuito a una rilevante contrazione dell’occupazione rispetto al mese di luglio 2019 (-2,4% pari a -556mila unità), che ha coinvolto uomini e donne di qualsiasi età, così come dipendenti (-317mila) e autonomi (-239mila); unica eccezione sono gli over 50 con un incremento di occupati (+153mila) che, tuttavia, è dovuto esclusivamente alla componente demografica. Il tasso di occupazione è sceso in un anno di 1,3 punti.

Osservando i dati riportati in tabella vengono in evidenza alcuni valori significativi. Innanzitutto per quanto riguarda i giovani delle coorti 15-24 anni: il numero dei disoccupati se è rilevante in termini percentuali è “affrontabile” in valori assoluti. Il dato sconfortante è quello degli inattivi pari a 4,5 milioni. Salendo lungo le classi di età, nelle fasce centrali da 25 a 49 anni la disoccupazione è contenuta, mentre è preoccupante il numero degli inattivi. Lo stesso ragionamento vale per gli ultracinquantenni a testimonianza non solo di una difficoltà di queste coorti di essere oggetto di una domanda di lavoro, ma anche di requisiti di pensionamento che consentono uscite anticipate troppo generose. C’è da presumere che i 13 milioni over 64 anni appartengano all’universo dei pensionati. Mentre non è positivo che 4,7 milioni di unità siano inattive da 50 a 64 anni.