Lo tsunami scatenato dall’epidemia ha messo a soqquadro anche la rilevazione dei dati sull’occupazione. La regola sovrana del distanziamento personale aveva creato problemi per realizzare le interviste Istat al solito “campione” e pertanto gli enti di ricerca si erano appoggiati l’uno all’altro per coordinare delle stime attendibili. Poi da Veneto Lavoro (un’agenzia da molti anni tra le più efficienti) erano pervenuti dai dati elaborati sulla base delle comunicazioni obbligatorie (l’obbligo di invio on-line delle comunicazioni di instaurazione, proroga, trasformazione, cessazione di un rapporto di lavoro, secondo i modelli unificati definiti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali , da parte di tutti i soggetti obbligati e abilitati). In mancanza di informazioni aggiornate per l’intero territorio nazionale, i dati del Veneto indicavano un sostanziale arresto delle dinamiche di mercato del lavoro.



Tra il 1° febbraio e il 5 aprile l’attivazione di nuove posizioni lavorative ha rallentato fortemente (40.000 unità in meno rispetto allo stesso periodo del 2019), soprattutto per i contratti a termine (i quali hanno contribuito per circa tre quarti alla riduzione complessiva dei contratti). Tenendo conto di questo trend in una regione importante, l’Inapp ha approntato un’analisi a livello nazionale, secondo il carattere dell’occupazione. È emerso che i dipendenti a tempo determinato coinvolti dalle misure di contenimento del contagio sono poco meno di 600 mila, occupati in prevalenza nel settore terziario (419 mila). I lavoratori a tempo determinato occupati in imprese che operano in settori per i quali è stata disposta la sospensione risultano più di altri a rischio di perdita dell’occupazione. Inoltre, circa 225 mila dipendenti a termine interessati dalla restrizione sono occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, dove il 92,9% delle imprese risulta sospeso e dove generalmente i rapporti di lavoro a termine hanno una durata estremamente ridotta. È verosimile che, in presenza del fermo della attività, una quota non indifferente di contratti a termine non sia rinnovata.



I lavoratori con contratto a termine, oltre all’elevato livello di precarietà del lavoro anche in fasi espansive, sono generalmente più a rischio di perdere l’occupazione in fasi recessive o a causa di shock esogeni. In presenza di un calo della domanda di beni e servizi le imprese in maggioranza reagiscono – secondo l’Inapp – riducendo l’input di lavoro e il numero di occupati; nell’immediato, la diminuzione di personale viene praticata lasciando scadere i rapporti di lavoro a termine, o evitandone il rinnovo, e solo successivamente avviando operazioni di espulsione di occupati a tempo indeterminato, che presentano costi di dismissione più elevati.



Nel 2009, l’anno in cui la recessione economica ha pesato in misura maggiore in Italia, con una flessione del Pil pari al 5,3%, il numero di occupati a termine si è ridotto del 7,2% rispetto all’anno precedente, a fronte di una sostanziale stabilità dell’occupazione a tempo indeterminato (-0,1%). Solo nell’anno successivo si è registrata una marcata diminuzione degli occupati a tempo indeterminato.

Tanto i dati di fatto (in Veneto), quanto le considerazioni riguardanti i flussi dell’occupazione hanno acceso delle preoccupazioni sul lavoro a termine, anche alla luce delle norme introdotte dal decreto dignità relativamente alla possibilità di rinnovare o prorogare un contratto a termine dopo la scadenza dei primi 12 mesi, senza che il datore fornisca rigorosi motivi a giustificazione (il c.d. ripristino della causalità dopo 12 mesi dei 24 complessivamente consentiti per l’utilizzo di un contratto a termine con il medesimo lavoratore e per la stessa mansione). Com’è noto, il ragionamento semplicistico alla base della suddetta disciplina (che ha cambiato quella prevista dal decreto Poletti del 2014) è stato il seguente: dopo un anno il datore è in grado di essersi fatto un’idea circa la trasformazione di un contratto a termine in uno a tempo indeterminato (come se la prima fattispecie non fosse altro che un lungo periodo di prova).

L’esito delle modifiche introdotte dal decreto dignità – in condizioni normali – è stato un modesto incremento dell’occupazione a tempo indeterminato unitamente a un ricambio molto ampio dell’assunzione di nuovi contrattisti a tempo determinato al posto di quelli che avevano superato i 12 mesi in regime di acausalità. Nell’attuale situazione dell’economia non occorre molta immaginazione per comprendere che le trasformazioni a tempo indeterminato dei contratti già a termine sarebbero praticamente scomparse e che i contratti a tempo determinato, venuti a scadenza nei prossimi mesi, non sarebbero stati rinnovati e prorogati. Ecco allora i motivi a sostegno dell’esigenza di una modifica o di una deroga della normativa sulla causalità di cui al decreto dignità.

Pare che queste raccomandazioni siano state accolte “là dove si puote ciò che si vuole”. Nell’ultimo testo in circolazione del decreto rilancio è previsto il seguente articolo:

Art.99 Disposizione in materia di proroga o rinnovo di contratti a termine

1. In deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.

La norma è chiara nella sua ratio. Come per tanti altri casi (estensione della cig, sospensione dei licenziamenti, ecc.), si tratta di una disposizione temporanea legata all’emergenza. È tuttavia importante che l’establishment governativo e di maggioranza non si sia imbattuto in qualcuno pronto a mettersi di traverso pur di non accantonare, per motivi politici, una norma che avrebbe avuto gravi conseguenze (anticipate rispetto a quelle che verranno) sull’occupazione.

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