La prima fase della crisi sanitaria non è ancora conclusa, ma è ormai chiaro che è necessario programmare gli interventi per la ripartenza. Il lavoro sarà sicuramente uno dei problemi cardine del prossimo futuro. Già oggi l’Ilo prevede che in alcuni Paesi registreremo una disoccupazione superiore a quella affrontata alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Si arriva a stimare una perdita di oltre 30 milioni di posti di lavoro a livello globale e tali stime sono destinate a crescere nelle prossime settimane.
In tutti i Paesi per affrontare la prima fase sono stati programmati interventi mirati a rispondere ai problemi immediati creati a famiglie e imprese dalla decisione di applicare un deciso blocco alle attività e alla circolazione delle persone. In questo senso i provvedimenti, simili in tutti i Paesi, hanno teso a dare sostegno ai redditi delle persone, avviato linee di credito per sostenere la liquidità delle imprese, rinviate scadenze di pagamento per fisco, mutui, ecc. e ampliato gli interventi di sicurezza sociale esistenti.
Non tutto è stato fatto in modo ottimale, si sono allargati i confini di copertura degli strumenti esistenti e spesso questi non si sono dimostrati adeguati per rispondere a problematiche nuove e non previste. Molte fasce di lavoratori “marginali” non hanno trovato tutele equivalenti a quelle messe in campo per altri. L’abolizione dei voucher e il ritorno forzato alla cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga hanno messo in luce tutte le ragioni di chi premeva per strumenti di tutela dei lavori flessibili e per completare la riforma degli ammortizzatori sociali restituendo caratteristica di universalità nella tutela di tutti i lavoratori. La stessa evidenza che ha portato a decidere per la prima volta di prevedere forme di tutela e sostegno al reddito per lavoratori autonomi e partite Iva. Il pasticcio Inps e i 600 euro dati a tutti sono certo una risposta inadeguata, ma resta valida se vista come un primo segnale di coscienza che occorre ripensare al welfare del futuro.
Ora si tratta però di immaginare cosa servirà alla riapertura. A cominciare dal cercare di prevedere quanti ripartiranno e con quali problematiche finanziarie e di mercato. Quanti perderanno il lavoro in modo definitivo e quanti resteranno fuori solo per uno o più periodi. Quali nuovi strumenti dovremo prevedere visto che la crisi colpisce sia la domanda che l’offerta di lavoro.
Nella seconda fase dovremo accantonare gli interventi provvisori e cercare, il più possibile, di disegnare nuovi servizi e tutele che tengano conto delle prime lezioni che possiamo trarre dall’esperienza che stiamo facendo.
Emerge sopra a tutto l’indispensabile operazione di sburocratizzazione degli interventi di sostegno programmati perché siano semplici, veloci e trasparenti. Ciò vale per la Pubblica amministrazione ma anche per tutti i servizi alle persone e alle imprese che vengono messi in campo. Le procedure per l’accesso all’anticipo della Cig o al credito, anche in presenza di garanzia totale, non possono essere appesantite da procedure bancarie pensate esclusivamente a tutela della banca stessa tradendo così l’obiettivo di essere al servizio dei richiedenti il servizio.
La riflessione principale riguarda però un tema di fondo del modello di welfare, soprattutto per un Paese fortemente indebitato come il nostro. Tutto il sistema di tutele normalmente richiamate con il termine di welfare che riguardano ciascuno di noi è finanziato per larga parte da contributi legati ai versamenti da lavoro dipendente o assimilato. A ciò si aggiunge una parte finanziata dalla fiscalità generale. Appare evidente fin da questa prima fase che il sistema di welfare attuale non è in grado di coprire tutte le problematiche che questa crisi ci ha messo di fronte. Vi è ovviamente bisogno di nuovi e forti investimenti nel sistema sanitario (ospedaliero, territoriale e nella ricerca), ma nello stesso tempo dovrà crescere un nuovo sistema di tutele per arrivare a coprire, con sistemi di assicurazione sociale, anche quelle fasce di lavoratori che oggi non godono di ammortizzatori sociali per i periodi di crisi.
Anche il disegno di servizi futuri dovrà rispettare quattro principi che hanno assicurato al nostro welfare di essere comunque per lungo tempo inclusivo e sostenibile. Dovrà essere capace di avere carattere universalistico. Oggi ancora troppe tutele rispondono a figure lavorative e sociali che sono superate e quindi non rispondono più alla totalità dei bisogni e delle figure sociali che la trasformazione produttiva ha espresso. Si dovrà badare all’equità degli interventi con la capacità di personalizzare sevizi e percorsi di fruizione. Equità è tenere conto che ognuno è diverso nel fruire di eguali tutele.
I nuovi modelli dovranno essere sostenibili sia economicamente che socialmente ed ecologicamente. Sostenibili perché non possiamo irresponsabilmente consumare le risorse dei nostri figli e nipoti. Ma nello stesso tempo semplici e attrattivi per innescare una nuova fase di collaborazione sociale. Infine, dovrà essere chiaro che si stanno definendo le regole di un nuovo welfare e ciò richiede un orientamento al futuro e non uno schiacciamento corporativo sul presente. Coinvolgere i corpi intermedi, mettere in moto il positivo che anche in questo periodo è emerso dalla nostra società, è indispensabile per avviare un nuovo patto sociale.
Fissati i principi dovremo però decidere di entrare nel merito e fissare obiettivi chiari. Secondo alcune prime previsioni avremo nel settore privato circa 12 milioni di lavoratori occupati in settori di imprese che resisteranno alla crisi. Attorno a questi settori ruotano anche poco meno di 3 milioni di lavoratori con contratti deboli che pagheranno con un distacco più o meno lungo gli effetti della crisi. Vi sono poi 3 milioni di lavoratori impegnati in settori fortemente colpiti e circa 4 milioni di lavoratori saltuari o irregolari.
La crisi di settori verticali come nel caso del turismo richiederà misure di sostegno sia della domanda che dell’offerta di servizi per favorire una ripresa più rapida. Lo stesso sarà da prevedere per altri settori del commercio e dell’artigianato. A questi interventi per le imprese dovrà abbinarsi lo sviluppo di servizi di politiche attive per il lavoro finalizzati ad accelerare i processi di ricollocazione dei lavoratori e di sostegno a nuova imprenditorialità.
Avremo bisogno di un grande disegno di programmi di politiche attive capaci di coordinarsi con i programmi di assistenza sociale che verranno messi in campo. Non basterà la rete dei Centri pubblici per l’impiego. Dovremmo fin da ora chiedere agli operatori privati di mettere a disposizione anche parte delle loro strutture per essere punti di riferimento per le dichiarazioni di disponibilità al lavoro, ma anche di essere punti di informazione, se non di fruizione, anche per i servizi sociali abbinati a quelli del lavoro.
Avremo di fronte problemi nuovi posti dal mutamento strutturale dei sistemi produttivi che sarà accelerato nella fase post-crisi. Si amplierà il mismatching fra domanda e offerta di lavoro. Servirà una formazione non solo breve per restituire una buona occupabilità a molti lavoratori con professionalità superata.
Sarà un periodo dove chiamare a collaborare strutture pubbliche e private delle politiche dell’occupazione e favorire la diffusione delle best practices senza gelosie aziendali o territoriali. Ci fosse una vera Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro sarebbe il momento per battere un colpo. Speriamo arrivi almeno il colpetto delle dimissioni del presidente di Anpal e che resti negli Usa lasciando il posto a qualcuno che potrà provvedere a elaborare un piano nazionale di intervento.