Che cosa dobbiamo aspettarci in materia di lavoro e di pensioni nell’anno appena iniziato? Per partire col piede giusto dovrebbero essere il Governo e la maggioranza a prendere l’iniziativa. Corriamo invece il rischio che a fare la prima mossa siano le opposizioni.

Corre voce che il Pd si appresta a lanciare in vista delle elezioni europee la proposta sulle 34 ore su quattro giornate di orario di lavoro settimanale. Si confermerebbe in questo modo la linea di condotta che il nuovo gruppo dirigente dem ha portato avanti nel corso del 2023: avanzare delle proposte non già per risolvere dei problemi e realizzare degli obiettivi, ma soltanto per avere degli argomenti di propaganda politica contro la destra. In sostanza, per farsi dire di no. L’ultimo esempio è quello del recente voto sul Mes; ma il caso più clamoroso della pretesa di vincere attraverso una sconfitta è quello del salario minimo.



Per com’ è stata gestita tutta l’operazione è evidente che non sarebbe potuta finire diversamente da come si è per ora conclusa (infatti, manca ancora l’approvazione del Senato). Peraltro la priorità assegnata alla propaganda ha indotto le opposizioni (con l’eccezione di IV) a rinunciare a un parziale successo politico: quello di aver portato la maggioranza a formulare – al di là delle sue intenzioni contenute in una risoluzione approvata dalla Camera nel dicembre 2022 – una proposta. Pd e M5S, persino nelle dichiarazioni di voto sulla Legge di bilancio, hanno criticato la maggioranza per non aver accolto la loro proposta comprensiva dei 9 euro lordi all’ora che costituivano secondo Conte e Schlein un importo che non si poteva neppure mettere in discussione. Con la norma di delega il Governo si è impegnato a varare un provvedimento a tutela del lavoro povero mediante il rafforzamento della contrattazione collettiva.



È una scelta strategica condivisibile, anche perché non richiede una legge sulla rappresentanza (che anche ammesso e non concesso che sia applicabile snaturerebbe i principi e di valori dell’autonomia collettiva e del reciproco riconoscimento); ma la stesura del decreto legislativo (che in forma di schema dovrà ricevere il parere obbligatorio ma non vincolante delle Commissioni parlamentari competenti) non è un lavoro privo di problemi. È una considerazione che abbiamo avuto occasione di svolgere altre volte: quando il trattamento complessivo minimo previsto dal contratto maggiormente applicato nella categoria viene assunto come obbligatorio in quell’ambito bisogna tener presente che i confini e le platee attinenti a quella definizione sono dati anch’essi riconducibili alla contrattazione collettiva e alla discrezionalità delle parti stipulanti che possono smontare e rimontare in altro modo l’assetto delle “categorie” tradizionali e dei relativi contratti. Paradossalmente, anche un contratto pirata può essere quello maggiormente applicato ai lavoratori di un gruppo di aziende che lo stipulano in una logica di dumping sociale.



Non sarà facile risolvere questo problema secondo le regole del diritto comune perché non è ammissibile (l’articolo 39 Cost. stabilisce che l’organizzazione sindacale è libera) una legge che stabilisca a priori quali settori del mercato del lavoro rientrano in una determinata categoria. Ancora una volta è consigliabile chiedere il contributo del Cnel (che è stato un po’ messo da parte quando la maggioranza ha voluto definire la norma di delega). Ovviamente il Cnel non è in grado di fare ciò che non è neppure consentito al Parlamento, ma potrebbe promuovere un accordo interconfederale che definisca – in via negoziale – gli ambiti delle categorie. Così la delega potrebbe fare riferimento ai contratti maggiormente applicati nelle categorie individuate in modo convenzionale dal Cnel.

Tornando al tema dell’orario di lavoro, il Pd non può pretendere di formulare una proposta, chiederne la discussione e poi criticare la maggioranza e il Governo se non si adeguano. Una siffatta linea di condotta porterebbe ad ammazzare sul nascere una proposta che pone una questione reale. Perché con le trasformazioni che sono in atto nell’organizzazione del lavoro – dal lavoro a distanza alle nuove tecnologie – la leva dell’orario di lavoro (anche in relazione alle aspettative che le nuove generazioni hanno nei confronti delle esigenze del vivere quotidiano) deve favorire e accompagnare le trasformazioni stesse. Ma l’esperienza delle riduzioni generalizzate sconterebbero il risultato deludente dell’introduzione delle 35 ore settimanali in Francia nel secolo scorso. Vanno invece favorite le buone pratiche attraverso la contrattazione settoriale e decentrata, magari agevolando questi processi attraverso gli incentivi fiscali ora previsti per quanto riguarda la produttività, la qualità del lavoro e la partecipazione. Una riduzione generalizzata produrrebbe un incremento del costo del lavoro che in molte realtà si tradurrebbe in maggiore lavoro straordinario, più ferie e permessi retribuiti (come appunto avviene in Francia). L’adozione di soluzioni flessibili, mirate e finalizzate a precisi obiettivi potrebbero invece conseguire un salto di qualità nell’organizzazione del lavoro attraverso una scambio effettivo tra maggiore retribuzione e migliori prestazioni.

Nel 2024, poi, in materia di pensioni non c’è più spazio per la politica delle quote (ormai si sta raschiando il fondo del barile come dimostra la scarsa attrattività di Quota 103 come revisionata nella Legge di bilancio). Dall’1 gennaio 2025 cesserà del tutto la sperimentazione stabilità nel 2019 del blocco dei requisiti per il pensionamento ordinario di anzianità e sarà ripristinato l’aggancio automatico all’incremento dell’attesa di vita. È questa la norma più importante a cui la riforma Fornero affidava la sostenibilità del sistema man mano che si estendeva il calcolo contributivo. Il Governo sembra essersi resoconto dell’insostenibilità del sistema in un contesto demografico costretto tra le morse della denatalità e dell’invecchiamento.

Ammesso e non concesso che ci sia ancora una via d’uscita in grado di evitare il default occorre scegliere tra due opzioni di fondo (magari cercando un equilibrio tra queste): aumentare la permanenza al lavoro attraverso la manovra sull’età pensionabile oppure consentire una maggiore flessibilità in uscita a scapito dell’ammontare dell’assegno. Chi scrive è convinto che – sia pure in una logica di mediazione tra le diverse esigenze – la prima strada sia la più adeguata per le nuove generazioni dei lavoratori che per i tempi e le modalità di accesso al lavoro considererebbero con maggiore preoccupazione un robusto requisito contributivo per accedere alla quiescenza, piuttosto che rimanere più a lungo e ritirarsi a un’età superiore a quella dei loro padri i quali ancora da anziani/giovani avevano potuto accumulare anzianità di servizio molto elevate, impensabili per chi entra ora nel mercato del lavoro.

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