I dati della crescita del Pil italiano per il terzo trimestre dell’anno in corso ci danno fermi. Crescita zero dopo un periodo in cui crescevamo più degli altri Paesi europei. Siamo diventati terzultimi nell’Europa a 27. Il dato deve aprire riflessioni urgenti su come riprendere il percorso virtuoso che abbiamo abbandonato.
La prima presa d’atto da fare è che i risultati positivi post-pandemia sono stati un successo del nostro comparto industriale e poco è dovuto a politiche di sostegno. Ora si deve operare perché il quarto trimestre, grazie a un po’ di domanda estera in possibile ripresa ma soprattutto alla domanda di consumi natalizi interna, possa riportare il risultato finale ad avvicinarsi alla previsione iniziale del +1%.
Se queste misure di breve periodo possono trovare sostegno con iniezioni di fiducia, occorre ben altro per sostenere la crescita dei prossimi anni. A zero si è arrivati perché la voce produttività non solo viene citata poco, ma non rientra nelle priorità delle scelte che vengono fatte. La debole spinta di questi ultimi due anni è venuta dai primi impatti degli investimenti fatti con i fondi Pnrr. Il programma è stato volutamente avviato in sede europea per sostenere sì la crescita dopo la fase della pandemia, ma soprattutto perché ogni Paese potesse, via investimenti e riforme, entrambi significativi, correggere elementi strutturali negativi che pesavano sul sistema economico. È la combinazione di interventi che agisce in modo strutturale per aumentare la produttività di sistema, sostenere la domanda con investimenti di modernizzazione e insieme tracciare la linea per contenere l’indebitamento che pesa sulla spesa pubblica.
Il Pnrr concede, infatti, poco spazio a spese che poi diventerebbero nuove voci di spesa corrente con impatto sui vincoli di bilancio. C’è, infatti, il capitolo destinato al lavoro e alla formazione che destina una cifra significativa (5,5 miliardi) perché con il Pnrr si dia vita a un sistema nazionale di servizi per il lavoro.
Uno dei problemi denunciati costantemente dalle nostre imprese e confermato dai dati elaborati dal sistema Excelsior è il mismatching fra competenze richieste dal sistema produttivo e preparazione dei giovani all’uscita dai percorsi formativi. Il dato è oggi amplificato dagli effetti del calo demografico e dall’esigenza di upskilling e reskilling per molti lavoratori impiegati in settori diversi, visto che l’innovazione tecnologica impatta di più sulle professioni e sull’organizzazione del lavoro. Un efficiente sistema di politiche attive del lavoro avrebbe capacità di coordinare tutti gli interventi sul campo migliorando così la produttività del sistema di imprese.
Il programma Gol è stata la risposta che si è avviata e che è servita a programmare l’uso delle risorse del Pnrr. Si può ritenere che fosse una risposta adeguata solo se considerata come avvio e che ci sarebbero stati interventi continui per regolare il sistema.
Il nostro sistema basato sui Centri per l’impiego e parzialmente allargato al coinvolgimento dei privati accreditati per servizi al lavoro non ha ancora concepito un’impostazione di servizio universale rivolto a tuti coloro che vivono una transizione di entrata nel mercato del lavoro o durante una vita lavorativa che, dati i cambiamenti tecnologici, prevede spesso cambiamenti e richiede una formazione continua.
Sul programma Gol pesa il fatto di essere stato pensato in un periodo in cui era carente la domanda di lavoro per cui si erano immaginati parametri di misurazione di successo legati più a orientamento e formazione delle persone che non allo sbocco lavorativo. Oggi la fase è cambiata. L’occupazione cresce, ma rischia di essere confinata in lavori di bassa qualifica e resta inevasa la domanda delle imprese perché scarse le competenze necessarie.
Dovrebbe essere evidente allora che la programmazione per l’uso delle risorse del Pnrr deve individuare modalità diverse. Programmi di adeguamento della formazione per occupati o disoccupati devono trovare una regia unica. Sarà anche il modo per semplificare gli accessi, togliere quei vincoli per cui si mette a rischio il sostegno al reddito più partecipando a corsi formativi che restando a casa, certificare la validità dell’offerta formativa sui successi occupazionali ottenuti e non solo sulla frequenza.
Ciò che avviene oggi è molto diverso. Si bada a prese in carico di massa per dimostrare che i Centri per l’impiego vi sono, le misure di sostegno sono pensate per target separati e senza misurare i successi lavorativi, non si coordinano interventi per occupati e disoccupati sulla base delle esigenze del sistema produttivo territoriale.
Pendiamo i dati riferiti a uno dei target che riedevano più attenzione: gli ex percettori del Reddito di cittadinanza ritenuti occupabili. Da una platea di 500 mila aventi diritto, sono arrivate 90 mila domande e ci sono stati solo 48 mila avvii a corsi formativi. Non si sa se con successo alla conclusione. Meno del 10% di impegni, non si sa però se a buon fine.
Prendendo per buona la previsione che l’impatto sul Pil dei 5,5 miliardi spendibili su questo capitolo del Pnrr può arrivare a un incremento dello 0,9% riteniamo che un’attenzione maggiore nel disegnare nuovi servizi al lavoro sarebbe bene mettercela. Da parte del Governo, ma anche da parte di tutte le parti sociali interessate, che spesso pongono richieste ma non avanzano disponibilità e ad assumersi le responsabilità necessarie per creare un sistema realmente efficace.
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