Con la pubblicazione dei dati di fine 2021, l’Istat ci permette di trarre una valutazione complessiva dell’anno appena concluso. Il tasso di occupazione complessivo è del 59%. È tornato quello del febbraio del 2020, ossia quello pre-pandemia. La crescita dell’occupazione è continuata anche nel mese di dicembre, ma con un forte rallentamento (probabilmente stagionale) rispetto ai mesi precedenti.



Se guardiamo ai numeri assoluti mancano però all’appello 286 mila occupati. Come già sottolineato da molti commenti, i risultati di quest’ultimo periodo incominciano a essere influenzati, in modo evidente, dal calo demografico. Le classi di età più giovani sono meno numerose, la popolazione in età lavorativa cala e il tasso di occupazione aumenta pur in presenza appunto di quasi 300 mila occupati in meno.



Il dato conclusivo del 2021 ci dice che è cresciuta proporzionalmente di più l’occupazione femminile e quella giovanile. Assieme a loro è cresciuta la quota del lavoro dipendente. Il calo del lavoro autonomo è una caratteristica del periodo di crisi sanitaria.

Possiamo dire che, dato che gli effetti della pandemia sono ancora in corso, la ripresa quantitativa degli occupati fa ben sperare. Molti settori economici funzionano ancora a scartamento ridottissimo, quanto ruota intorno al turismo e agli eventi culturali e sportivi è ancora fermo. L’ultima fase delle misure anti-omicron, con un ritorno in massa allo smart working, ha ricreato situazioni di desertificazione delle zone di uffici e ha riportato indietro la ripresa di molte attività economiche.



La previsione di un ritorno sempre più deciso alla normalità, possibile grazie al buon risultato delle campagne vaccinali, e l’avvio degli investimenti previsti dal Pnrr potranno riavvicinare i tassi di crescita occupazionali a quelli straordinari toccati dal Pil negli ultimi mesi.

La scelta operata alla fine dell’estate scorsa di accantonare il blocco dei licenziamenti non ha portato alla crescita dei disoccupati e non abbiamo assistito ai drammi sociali che l’estremismo sindacale continuava a paventare come unico risultato delle decisioni.

Certo assistiamo a continue crisi di settori aziendali che devono avviare profonde ristrutturazioni per poter affrontare le nuove fasi di sviluppo. Alcuni gruppi multinazionali hanno approfittato per delocalizzare la produzione. Le politiche dei singoli Stati sono sempre meno robuste per affrontare queste sfide. Politiche fiscali e di difesa della qualità del lavoro dovranno trovare nelle scelte europee la sede per poter riportare alla politica democratica le decisioni di tutela dei lavoratori.

Se questi fenomeni e i licenziamenti sono stati relativamente contenuti restano comunque da affrontare gli squilibri di fondo del nostro mercato del lavoro.

Il tasso di occupazione complessivo, quello delle donne e dei giovani, sono tutti ancora lontani dagli obiettivi previsti dai piani di rilancio definiti dall’Europa. A questo deficit lavorativo nazionale sommiamo poi un forte squilibrio territoriale che vede nel Mezzogiorno d’Italia tassi di partecipazione al mercato del lavoro con percentuali da economia arretrata.

Perché molte più persone possano trovare lavoro è indispensabile che gli investimenti previsti per i prossimi anni abbiano una domanda di lavoro ben strutturata e forte. Dovremo quindi o assicurare che vi siano professionalità e competenze adeguate alla domanda dell’economia. Questo riguarda sia i nuovi lavoratori che arrivano sul mercato del lavoro, sia la formazione per tutti coloro che già lavorando dovranno apprendere nuove competenze professionali. Dovrà crescere anche il livello salariale offerto per annullare il diffondersi del fenomeno dei working poors e anche la domanda di professionalità alte se vogliamo trattenere i molti giovani che si rivolgono all’estero perché risultano troppo formati per i livelli professionali richiesti dall’insieme delle imprese italiane.

Le due linee d’azione che la politica del lavoro deve quindi sviluppare in modo deciso e veloce per supportare lo sforzo richiesto dal Pnrr riguardano il sistema dei servizi al lavoro, con relative politiche attive del lavoro, e il sistema di formazione professionale, sistema duale dal triennio iniziale fino agli Its per chi si prepara a entrare al lavoro, e formazione continua rivolta a chi già lavora ed è interessato da transizioni della evoluzione professionale o da lavoro a lavoro.

La discussione politica degli ultimi mesi, e anche i commenti sui dati di chiusura del 2021, tendono a concentrarsi sulle misure che si vorrebbero introdurre per sostenere singoli target di lavoratori. L’elenco di proposte avanzate per sostenere l’occupazione di giovani e donne è talmente lungo e diversificato che si presta più a commenti ironici che non a serie discussioni.

Si rimane per lo più bloccati su contributi alle imprese che assumono date categorie di lavoratori o addirittura si immagina di rendere obbligatorie quote di giovani e donne occupati nelle imprese che lavorano con la Pubblica amministrazione. Tutto senza comprendere le esigenze dell’impresa e convinti che non si assuma per eccesso di costo e non per mismatching professionale.

Anche il ministero pare impegnato più in questa gara all’idea risolutiva che non a creare il sistema di servizi al lavoro che possa sviluppare le migliori proposte per tutti. È come se il ministero dell’Educazione si dedicasse a strutturare i percorsi per lo sport nelle palestre e i corsi differenziali per ragazzi problematici rinviando continuamente le scelte per definire il sistema scolastico per tutti.

L’impegno per rilanciare la crescita economica e lo sviluppo di un mercato del lavoro meno caratterizzato da squilibri richiede che con urgenza Stato e Regioni avviino il sistema italiano di formazione al lavoro e del lavoro e la rete di servizi utili ad accompagnare le transizioni al lavoro di tutti.

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