L’Europa c’è. Il risultato di quasi una settimana ininterrotta di trattative per deliberare il Recovery fund ha portato a un risultato storico. Non tanto per le cifre, comunque consistenti, quanto per l’avvio di una nuova tappa dell’integrazione europea. Per chi è convinto che solo con un’unità europea più forte sarà possibile affrontare le nuove sfide della globalizzazione post-Covid e i nuovi equilibri geopolitici internazionali è stata una data positiva.
C’è poi il valore economico di quanto deliberato per sostenere i piani di rilancio delle economie dei vari Paesi europei. Parte in fondi a prestito e parte a fondo perduto. Una mediazione sulla governance (parola alla Commissione e possibilità di interlocuzione degli Stati in Consiglio) ha permesso di fare un passo avanti anche nell’integrazione del governo fiscale comunitario.
Questo era il principale obiettivo dei politici dalla vista lunga. La polemica fra “frugali e spendaccioni” era, per usare un paragone rubato allo storico Braudel, la schiuma della storia mentre le correnti profonde delle onde ridisegnavano i fondamentali d’Europa e isolavano le idee sovraniste.
Ora c’è però bisogno di programmare la richiesta di quanto può tornare utile all’Italia per avviare le riforme e gli investimenti che permettano di dare una scossa alla nostra economia. Non avremo risorse se ci presenteremo con la giaculatoria populista-progressista di investimenti sostenibili, misure per non lasciare indietro nessuno, la salute al primo posto e un futuro plastic free. Tutti slogan legittimi ma inutili per disegnare un progetto di rilancio del Paese che deve porsi l’obiettivo di recuperare velocemente il gap di produttività accumulato in questi anni e assieme avviare un percorso di crescita degli investimenti in conoscenza del capitale umano (sistema duale, formazione permanente e politiche attive) per innalzare l’occupabilità e la qualità del lavoro di tutti.
Sono queste le premesse necessarie e indispensabili perché il programma di “Green new deal” non sia una scusa per non affrontare i temi di fondo e gli squilibri strutturali del nostro sistema economico.
Al centro di un progetto di sviluppo del Paese dovrebbe esserci la ricerca di una grande alleanza per il lavoro dove coinvolgere le forze della rappresentanza delle imprese e dei lavoratori. Anche se in modo ancora disordinato, in assenza di una volontà politica che, abbandonati i tavoli del confronto consociativo, riesca a promuovere patti per lo sviluppo con il concorso di tutti i corpi intermedi (vera ricchezza della società civile italiana), organizzazioni datoriali e rappresentanze sindacali hanno avanzato proposte e soprattutto promosso accordi. Se molti settori produttivi sono riusciti a rimettere in moto la produzione dopo il lockdown e hanno ottenuto eccellenti risultati già dal mese di giugno è perché le intese su produzione e salute fatte in sede sindacale hanno assicurato consenso e condivisione degli obiettivi (cosa che sfugge ai sindacati della scuola fermi a logiche corporative).
Hanno avanzato anche proposte per la ripresa economica nazionale e per favorire la ripartenza di investimenti pubblici e privati. In questo quadro hanno congiuntamente chiesto di accantonare questioni che possono essere “divisive” come il salario minimo e la legislazione sulle rappresentanze sindacali. Questioni importanti, ma da affrontare nell’ambito di un nuovo patto salariale e di partecipazione sindacale alla vita delle imprese.
Eppure il Governo mette al centro dei suoi interventi sul lavoro proprio questi temi. Si conferma così che questo, per quanto attiene i temi del lavoro, l’esecutivo intende seguire la linea della statalizzazione delle crisi e politiche assistenziali che confondono la lotta alla povertà con le politiche attive del lavoro.
Nonostante la forte rappresentanza di esperti delle tematiche del workfare europeo fra deputati del Pd e di Italia Viva che, assieme a forze sindacali e imprenditoriali, sollecitano provvedimenti per il rilancio dell’occupazione e nuove tutele e servizi per disoccupati e giovani in cerca di lavoro, nel Governo prevale la linea anti-europea giallo-verde che riduce il lavoro al “posto” e le politiche attive in assistenza e sussidi. È in questa assenza di visione politica e sociale che in Europa si sta consumando un paradossale “processo” alla politica del lavoro di Regione Lombardia.
La Commissione europea sta svolgendo un’indagine sulla Dul (Dote unica lavoro), ossia sulla politica attiva del lavoro che fornisce servizi per la ricollocazione dei disoccupati attraverso una rete di agenzie accreditate, pubbliche e private. I servizi in oggetto sono finanziati con il Fondo sociale europeo e prevedono una quota di servizi pagati solo se si è raggiunto il risultato occupazionale.
Il sistema di pagamento di una quota dei servizi a consumo e una quota a risultato sulla base di costi standard è esattamente quanto previsto dalla migliore metodologia europea. Ciò che viene contestato è che è possibile che alcuni operatori possano avere abusato del sistema collocando persone che anche senza premialità avrebbero trovato collocazione in somministrazione (caso di alcune Agenzie per il lavoro accreditate) o che possano essersi fatti pagare anche dall’impresa incassando un doppio compenso.
L’attenzione al rischio di creaming (scelgo solo i disoccupati facili da ricollocare) e di gaming (in caso di servizi non erogati o non necessari) caratterizzano tutti i modelli di politiche del lavoro. Richiedono una costante vigilanza e continua manutenzione dei sistemi. Su questo sarebbe utile il continuo confronto anche in sede europea. Si sta invece profilando il rischio di una condanna che riguarderebbe il modello della politica attiva lombarda e così si butterebbe il bambino con l’acqua sporca.
L’assenza di un’attenzione politica al problema aperto per la Regione Lombardia fa sottovalutare il rischio di una successiva penalizzazione nazionale in quanto anche la prima attuazione di Garanzia Giovani ha raccolto le stesse osservazioni dalla Commissione europea. Per disattenzione rischiamo così di vedere penalizzato il modello più avanzato di politiche attive avviato da una regione assieme alla principale esperienza di politica attiva per i giovani disoccupati attuata nazionalmente.
Capisco che se il Governo ha scelto il lavoro assistito non presti attenzione a difendere le esperienze positive di politica attiva del lavoro, ma non è vietato a parlamentari nazionali ed europei di intervenire per bloccare un’iniziativa di burocrati europei che avrebbe un grande impatto sul nostro debole sistema di workfare.