Sono convinto che le scelte in materia di regolazione del mercato del lavoro e gestione delle politiche del lavoro (attive e passive) hanno un’elevata influenza sul consenso politico. Cerchiamo in questo breve contributo di fare una rappresentazione della situazione italiana e capire quanto sia “forte” questo delicato rapporto.
Negli ultimi anni, il Movimento 5 Stelle (M5S) soprattutto per “opportunità” politica guarda con favore il centro-sinistra, diventando ormai il partito di riferimento dei più svantaggiati. Questo perché il Partito Democratico (Pd) ha totalmente abbandonato tale platea di “elettori”, rivolgendosi a un elettorato in prevalenza impiegato, intellettuale e in certi casi benestante. All’orizzonte si contrappongono (o convivono) due sinistre, soprattutto la prima (i M5S) guarda ai bisogni fondamentali che possiamo chiamare il “pane & lavoro” e aggiungo, sempre per opportunità politica, è del tutto disinteressato alle tematiche relative alla tutela dei migranti e/o minoranze, come le persone LGBT. Mentre la linea governista/pragmatica che ha rappresentato il Pd nell’ultimo decennio è sempre stata una posizione di “buon-senso” e molto attenta ai conti pubblici, ma anche una linea poco “attrattiva” verso gli elettori e “ambivalente” su molte proposte in tema di politiche sociali e del lavoro.
È noto a tutti che sono state proprio le riforme di “sinistra” in materia di mercato del lavoro, portate avanti dal Partito democratico nell’era renziana, ad aver fatto crollare il suo consenso elettorale. In particolare, attraverso il Jobs Act è stato modificato radicalmente il contratto a tempo indeterminato, laddove per decenni i Governi di centro-destra hanno sempre fallito Renzi è invece riuscito, realizzando la più radicale riforma neo-liberale del mercato del lavoro, scatenando un “odio” verso il Pd da parte dei sindacati, dei lavoratori di quasi tutti i settori e soprattutto spaccando i propri iscritti: senza giri di parole, da un punto di vista politico e comunicativo è stata un totale disastro.
Da parte del sottoscritto, si comprende pienamente la “logica” sottintesa della riforma, che consisteva nel “chiarire” a investitori esteri i costi di uscita nel caso di licenziamento individuale e quindi favorirne l’utilizzo. Però, oggi appare chiaro che non possono essere queste le riforme più rilevanti del mercato del lavoro nell’ultimo decennio da parte del più importante partito di sinistra in Italia. Basti pensare a cosa ha fatto la sinistra in Spagna, attraverso una riforma strutturale del mercato del lavoro che va: dall’introduzione del Reddito minimo vitale all’aumento del salario minimo legale e soprattutto a una maggiore rigidità nel mercato del lavoro (attraverso la riduzione e penalizzazione dei contratti a termine). Lungi da vederne un effetto causale, va detto che la Spagna registra una fantastica fase positiva nel mercato del lavoro, mentre è certo l’impatto sulla tipologia contrattuale utilizzata dalle imprese, che vede una crescita dei contratti a tempo indeterminato di oltre il 230%.
Ecco che qui si spiega in Italia il successo attuale del Movimento 5 Stelle, nonostante i tanti errori nel realizzare le riforme, le modifiche nel mercato del lavoro apportate dal Decreto dignità hanno contribuito ad aumentare i contratti a tempo indeterminato e possono rivendicare di aver introdotto un importante strumento di contrasto alla povertà. Il Reddito di cittadinanza è stato sicuramente scritto male (basti pensare al confronto tra poveri stimati dell’Istat e beneficiari, dove emerge una chiara sovrastima per single in prevalenza residenti al Sud), ma non c’è dubbio che effettivamente il M5S abbia introdotto rispetto al Partito democratico (considerando il Rei uno strumento del tutto irrilevante) un reddito di base a tutela dei più svantaggiati.
Detto questo è anche necessario fare il punto su alcune caratteristiche del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da nano-micro imprese, dove la netta maggioranza dei lavoratori è in possesso di basse-medie qualifiche, dove il titolo di studio necessario per la maggior parte delle professioni svolte in questo Paese è il diploma di scuola superiore ed è per questo che abbiamo circa 6 milioni di sovra-istruiti. A ciò si aggiunge l’elevata precarietà in ingresso del mercato del lavoro, almeno 7 neo-assunzioni su 10 avvengono attraverso contratti a termine. Seppur non esaustivo nello spiegare il fenomeno “Neet”, certamente la scarsa qualità dell’offerte di lavoro scoraggia/demotiva la partecipazione dei giovani nel mercato del lavoro. D’altronde, il semplice contratto a termine di un anno è per molti un “miraggio”, all’interno di una giungla contrattuale, fatta di: rapporti di lavoro di brevissima durata, collaborazioni occasionali, false partite Iva, falsi tirocini extra-curriculari, falsi soci-cooperativa e non dimentichiamoci l’intramontabile lavoro sommerso. Date queste condizioni, si spiega in generale la “sfiducia” verso la politica: quasi il 40% degli aventi diritto nelle ultime elezioni non ha votato.
Passando all’altro schieramento politico, tralasciando il popolo della Partite Iva (un esercito di 5 milioni di soggetti), la quale oggi vota nettamente a favore del centro-destra, che a sua volta ha “compensato” questa fiducia con una tassazione ancora più agevolata per il sistema forfettario, rimane “enigmatico” il voto degli operai (indicativamente il 25% di loro vota Fratelli d’Italia): almeno da un punto di vista del mercato del lavoro questo consenso verso la destra non si comprende appieno.
Il centro-destra è contrario alla patrimoniale (unica tassa che gioverebbe proprio agli operai a basso reddito), è sempre stata a favore di una “forte” liberalizzazione del mercato del lavoro e ha sempre avuto una visione ampiamente vicina al sistema imprenditoriale (si vede il tema relativo alla cosiddetta “pace fiscale”), allora perché viene votato dagli operai? Potremmo ipotizzare che una buona parte di questi elettori sia molto sensibile alle tematiche relative all’immigrazione, vista come una diretta “minaccia” al proprio posto di lavoro (un esercito di disperati pronti a offrirsi per un “pezzo” di pane e accusati di conseguenza di essere la causa dei bassi salari) e inoltre gli immigrati vivono negli stessi quartieri dei lavoratori a basso reddito e di conseguenza tale “convivenza” è molto complessa e difficile.
A questa ipotesi, va aggiunta anche la tematica previdenziale, seppur in passato formule come “Quota 100” hanno agevolato soprattutto dipendenti statali del Mezzogiorno, piuttosto che over 60 del sistema produttivo del triveneto, il tema previdenziale è certamente un elemento importante nelle scelte politiche. In tal senso, aldilà della sostenibilità economica dei conti pubblici, temo che sia insostenibile vedere tra qualche anno un 66enne o addirittura un 70enne lavorare ancora, soprattutto per i meno tutelati potrebbe rivelarsi nocivo dal punto di vista psico-fisica.
Date questa rappresentazione del quadro generale del mercato del lavoro italiano, senza esagerare sul tavolo del Governo Meloni, che ancora oggi gode di una certa “luna di miele” con gli elettori, è appoggiata una pentola a pressione che rischia di esplodere con tutti i suoi problemi, ovvero: perdita di potere di acquisto dei lavoratori; una drammatica precarietà per i giovani; e, infine, un sistema previdenziale irreversibile che rischia di avere pesanti ripercussioni sociali.
A questi problemi si aggiungono quasi 800mila percettori di Reddito di cittadinanza che da luglio non riceveranno più il sussidio: si tratta di una popolazione concentrata in due regioni italiane, Campania e Calabri. Il rischio che il contrasto alla povertà si trasformi in problema di sicurezza e ordine pubblico è molto alto. Anche in questo caso, ancora una volta, il modo con cui la regolamentazione del mercato del lavoro e le politiche connesse risponderanno a queste nuove sfide influiranno sulle scelte elettorale dei cittadini.
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