Il post-Covid, secondo le previsioni della sinistra sindacale, doveva vedere un deserto nel mercato del lavoro. La fine delle tutele speciali e dell’estensione della cassa integrazione avrebbe aperto le dighe per licenziamenti di massa. La realtà che si presenta è all’opposto una crescita costante del tasso di occupazione. Addirittura ha toccato nuovi massimi superando il dato pre-Covid.
Nonostante questa crescita restiamo di quasi dieci punti percentuali al di sotto della media Ue e lontani dagli obiettivi europei che fissano al 70% il tasso di occupazione ottimale. Pesano sul nostro dato complessivo alcuni ritardi storici. Possiamo definirli quelli delle tre G, giovani, genere e geografia. Il tasso di occupazione del Sud rimane stabilmente basso ed è ripreso un significativo flusso di emigrazione. Anche il tasso di occupazione femminile, pure in rialzo, resta molto al di sotto di quello dei Paesi europei con cui ci confrontiamo. Tenendo conto dell’impatto degli andamenti demografici che portano all’arrivo sul mercato del lavoro classi di età giovanili molto meno numerose di quanti arrivano all’età del ritiro, avremmo bisogno di politiche attive per l’occupazione capaci di alzare il tasso di attività complessivo.
In questi giorni è arrivato il monitoraggio del programma Garanzia Giovani giunto al traguardo dei 10 anni. Come noto, il programma di iniziativa dell’Europa è finalizzato all’inserimento lavorativo di quei giovani che non studiano e non lavorano, comunemente definiti Neet.
La classificazione per negazione non aiuta a definire a chi ci rivolgiamo con l’iniziativa. Giovani che non studiano e non lavorano possono avere ragioni sociali, ragazze madri ad esempio, o di esclusione sociale che richiederebbero interventi diversi per riprendere a essere attivi sul mercato del lavoro. In ogni caso dato l’alto tasso di disoccupazione giovanile registrato in Italia e una valutazione molto alta dei Neet del nostro Paese rispetto ai dati europei ci potevamo aspettare che il programma Garanzia Giovani trovasse un terreno fertile e potesse rappresentare una sperimentazione positiva per il sistema dei servizi al lavoro in generale.
Il quadro che esce dal monitoraggio decennale è invece sconfortante. Avevamo a disposizione 2,2 miliardi di euro e risultano ancora disponibili 700 milioni. Essendo in fase di rendicontazione pare che riusciremo a impegnare ancora una quota di questi fondi su altre politiche occupazionali e renderemo, perché inutilizzati, circa 170milioni.
Dal punto di vista quantitativo il programma risulterebbe positivo. Pur limitando l’età ai 29 anni è stato coinvolto nelle attività oltre l’81% della popolazione giovanile classificata Neet nel corso del decennio. Sono stati soprattutto maschi, sotto i 24 anni e residenti nel Sud e nelle Isole. Il programma prevedeva una fase formativa con tirocinio e poi inserimento lavorativo. Il peso delle varie fasi divergeva da regione a regione toccando appunto alle regioni fare i progetti esecutivi. Solo il 46% dei giovani coinvolti ha concluso il percorso previsto e solo il 36%, a sei mesi dalla conclusione, risulta occupata. Peraltro chi ha raggiunto l’obiettivo finale risulta per lo più residente al Nord ed in possesso di titolo di studio di livello alto.
Questo in un Paese dove, nonostante il calo dei Neet registrato negli ultimi anni, abbiamo ancora quattro regioni (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia) che registrano oltre il 20% di Neet.
L’esperienza di Garanzia Giovani era importante perché è stato il tentativo meglio organizzato e realizzato finora di una politica per il lavoro coordinata e attuata su tutto il territorio nazionale. Il risultato finale ci indica pertanto alcune riflessioni che saranno utili in generale e anche per valutare ed eventualmente correggere il programma Gol in corso di attuazione.
Va rilevato, in primo luogo, che il mancato raggiungimento del risultato occupazionale ci conferma che i Centri per l’impiego, che avevano un ruolo centrale nel programma Garanzia Giovani, non hanno sviluppato capacità di raccordo fra domanda e offerta di lavoro. Senza una rete che veda attiva la collaborazione fra servizi pubblici e privati al lavoro sarà sempre difficile raggiungere alte percentuali di inserimenti lavorativi.
Aggiungiamo che i nostri programmi privilegiano traguardi amministrativi senza valutare le performance e il raggiungimento degli obiettivi concreti. Tanta formazione, ma non valutiamo i formatori per il raggiungimento di obiettivi occupazionali. Come dire che si fa una scuola per professori e bidelli e non ci interessano i risultati degli studenti. Su questo punto la responsabilità delle singole regioni diventa dirimente. Non è un caso che gli occupati siano prevalentemente in regioni del Nord dove funzionano già politiche del lavoro finalizzate all’obiettivo occupazionale.
Terza questione che emerge con forza è il tema della governance. C’è quella che deve presiedere la capacità di spesa dei fondi europei perché troppo spesso il nostro Paese non riesce a sfruttare tutte le risorse disponibili. A questo tema si salda la necessità di avere un riferimento unico di coordinamento nazionale per le politiche del lavoro. Senza toccare il tema dei rapporti Stato-Regioni che è già oggetto di polemiche proprio in questi giorni, proviamo a guardare un esempio già in atto. Dobbiamo passare da un sistema che ha privilegiato le politiche passive. Il nostro sistema di ammortizzatori sociali – cassa integrazione, ecc – ha teso a salvaguardare il rapporto con il posto di lavoro esistente. Oggi dobbiamo passar a politiche che siano di sostegno per passaggi a nuovi lavori seguendo le trasformazioni produttive. Chi si occupa delle politiche passive è l’Inps, si può provare a staccare da Inps la parte di azienda che gestisce i fondi per le politiche passive assegnandogli il compito di gestire le risorse già in carico, le nuove per le politiche attive nazionali e i fondi europei programmando così il passaggio, coordinato con le regioni, da politiche passive a un modello nuovo di difesa dell’occupazione delle persone pur con transizioni verso nuovi posti di lavoro.
Finora questo Governo non ha avanzato idee per un sistema di politiche del lavoro che abbiano come misuratore di efficacia l’inserimento lavorativo. Auguriamoci che senza aspettare nuove riforme dello Stato-Regioni si muova nell’interesse dei tanti che chiedono più sostegno per poter accedere ala dignità che viene dal lavoro.
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