A parte (forse) Trump, ma si sa, lui è un mistero la cui posizione naviga sempre tra la furbizia, l’ignoranza e la comunicazione geniale, ormai al mondo tutti riconoscono che Covid-19 è una sigla che fa paura. Poi cosa sia la paura e come la si affronti è altra cosa. Se è arrivata però a occupare lo spazio televisivo dedicato nelle tv locali alle polemiche calcistiche, allora non vi son dubbi: è cosa preoccupante!



Preoccupante sì, per quanto ancora troppi tra noi pensino che la situazione sia grave ma non seria per dirla alla Flaiano. Al liceo d’altronde, anzi al ginnasio, passammo sere e notti intere a imparare a memoria i paradigmi irregolari greci e latini. Quando invece sarebbe bastato dar retta a Churchill e scoprire il solo e unico paradigma italico: siamo un popolo che “va alla guerra come ad una partita di calcio e ad una partita di calcio come alla guerra”. Certo, lui se lo poteva permettere, perché ai suoi cittadini promise “lacrime e sangue”: e la vittoria. Mica, come avviene in misura bipartizan e con regolarità nel Bel Paese, soldi e ricchezze a spese degli altri: dei futuri italiani, degli europei, dei cinesi, dei russi. Di chiunque ma non nostre.



Covid-19 dicevamo: cosa c’entra con lo sproloquio di cui sopra? Nulla, in apparenza. Magari penserete, andreottianamente, che siccome lo scribacchino che vi appioppa queste righe è anch’egli un recluso involontario, non sapendo che fare dà la stura a pensieri in libertà. Mannò: il punto è invece che in un’economia globale qualunque battito di ali in Cina diventa tempesta in Europa. Figuratevi allora se, come in questi mesi, in Cina non solo ha tempestato ma ci sono stati uragani e almeno due o tre delle bibliche piaghe d’Egitto!

La crisi sanitaria è crisi economica nella misura in cui colpisce le aziende e in particolare quelle di un settore, commercio, ristorazione, alberghiero, che rappresenta un pilastro del nostro sistema Paese. Ma c’è anche da dire che sono alcuni anni che il nostro sistema non funziona, non gira. L’ultimo intervento serio d’altra parte fu pensato dall’allora ministro Calenda. Dopo fu il nulla. Al limite sovvenzioni a fondo perso o tagli delle tasse per chi le tasse in gran parte evita già di suo di pagarle. In compenso come sempre tocca ai lavoratori dipendenti prendersi il carico dei costi e dei tagli. Per i benefici ripassare prego. Così è oggi.



Covid-19 dunque produce crisi aziendali, i cui costi si scaricano sulla fiscalità generale, cioè su noi.

Il Governo ha stanziato almeno una decina di miliardi extrabilancio, l’Europa ha messo sul tappeto una cifra simile e sta pensando di allargare i cordoni della borsa. Si sta valutando anche un’assicurazione generalizzata per tutti i lavoratori europei. Insomma, qualcosa si muove. Non bastano? Presumibilmente no, ma c’è da dire che nel nostro sistema il problema non è reperire i fondi, ma spenderli in modo oculato, sensato, produttivo.

Non è un caso che i fondi Ue corrispondano anzitutto al rinnovo del prestito delle somme destinate a progetti nazionali e mai utilizzate: in questo sport siamo dei campioni. Un anno fa dilapidammo una decina di miliardi per contentare il Nord (con Quota 100 abbiamo mandato in pensione gente che di norma non ha versato abbastanza denaro per sostenere la sua pensione fino al termine della vita), e il Sud (con il reddito di cittadinanza, e basta la parola, diceva Totò): perché il nostro Piave non è mai serio e le sorti del Paese si giocano sempre sulla pelle degli altri. Non si spesero cioè per rilanciare (o creare dove esso non esiste) un sistema industriale ed economico o anche, absit iniuria, generare infrastrutture. No, si spesero secondo l’italico costume della scarpa: la destra prima delle elezioni, la seconda dopo. E le scarpe le paghiamo oggi e le pagheranno i nostri figli domani.

Dunque, l’Europa si sta muovendo: anche abbastanza in fretta, diremmo. Certo non abbastanza, secondo alcuni esperti anti-europeisti, la cui posizione resta sempre un mistero: bisogna uscire dall’Europa, ma questa fa sempre troppo poco per noi? Domandina facile facile: ma secondo tali geniali strateghi della politica, una volta che, come da essi auspicato, ne saremo fuori cosa farà l’Europa per noi?

Ma a noi, che lassù viviamo, già colpisce che in videoconferenza i 26 abbiano trovato una posizione quasi comune. Sarà che ognuno di loro ormai ha il suo Covid-19; che i tedeschi hanno da recuperare la crisi dell’automotive; che i francesi hanno le elezioni e il sistema economico e sociale ha dei brividi che generano scossoni; che gli spagnoli abbisognano di interventi strutturali. Sarà quel che volete, ma sembra che Bruxelles stia dando segnali di vitalità.

Basta peraltro un po’ di memoria per intuire le differenze rispetto al passato. Vi ricordate nel 2008? E nel 2013? Vi ricordate la crisi greca? A proposito, se non ve la ricordate, andate a vedervi (dal salotto di casa, per l’amor del cielo, dal salotto di casa), l’ultimo geniale film di Costas Gavras: sarà anche un comunista, sarà un film a tesi, ma vivaddio capirete perché di Europa si vivrà o si muore (e si noti il voluto uso dei tempi verbali). In ogni caso capirete anche la differenza tra Ursula e Angela. Allora si lasciarono morire alcuni Paesi in nome dell’ideologia (Grecia, Portogallo), e, sempre in nome di quell’ideologia, li si abbandonarono ai capitali cinesi che infatti se li comprarono in blocco. Oggi si tratta insieme con la Cina per le forniture di materiale medico.

A tal proposito giusto l’altra sera un giornalista che va per la maggiore (almeno come presenza televisive, come copie vendute, invece …), ha accusato il ministro dell’Economia di non far nulla perché lui, il giornalista mica il ministro, non trova una mascherina e ha dovuto rivolgersi al mercato nero di Milano. Oddio: mercato nero? E dov’è? Siamo in guerra? Ci sono le tessere del pane? Il problema è che le mascherine sono prodotte in Cina e nella libera economia di mercato le aziende non prendono ordini dal Governo per decidere cosa produrre. E di solito le mascherine non sono di uso quotidiano. Ma tant’è: gli sarebbe bastato però saper leggere il francese o l’inglese per scoprire che sabato scorso un importante quotidiano internazionale e il maggior quotidiano belga già denunciavano la carenza di materiale medico di questo tipo a livello europeo e le risposte che si stavano dando. Come anche denunciavano che in Europa stanno arrivando dal Messico mascherine non conformi alla normative CE. Non sarà che le si ritrovano sul mercato nero di Milano?

Insomma, l’Ue ha capito che il virus è soprattutto un problema europeo. E si appresta ad affrontarlo in tutti i suoi aspetti. Tutti i capi di governo, si diceva, hanno dato il via libera a un piano che introduce anche un nuovo fondo d’investimenti dedicato all’emergenza coronavirus: si parte con 7,5 miliardi per garantire liquidità già dalle prossime settimane si arriverà a 25 miliardi. Sarà destinato al settore sanitario, alle piccole e medie imprese e, ecco la buona nuova, anche al mercato di lavoro per ridare fiato ai settori economici colpiti dall’epidemia.

Soprattutto però l’esecutivo Ue sembra davvero intenzionato a garantire tutta la flessibilità possibile sui vincoli di bilancio, per favorire le spese anche ai Paesi con alto debito o deficit, e sulle regole sugli aiuti di Stato per sostenere le piccole e medie imprese colpite dalle conseguenze economiche. Siccome poi ogni crisi è anche una occasione, sembra anche che si stia lavorando seriamente a un maggiore coordinamento delle rispettive politiche di bilancio: Francia, Italia e Spagna sono già su questa posizione: la Germania ancora tentenna, ma a Bruxelles in molti pensano che quel che non poté il Dieselgate potrà Covid-19. 

Dentro questo pacchetto ci son le misure per sostenere il mercato del lavoro: misure benedette, ma che andranno concordate, contrattate, concertate, in ultimo a livello delle singole nazioni. Non si capisce ancora bene cosa saranno, ma, a dispetto del fatto che a noi personalmente mica piace, ormai è chiaro che si va verso il salario minimo europeo.

Sicché il gigante è scosso: dai brividi per una febbre maligna, certo, ma anche dall’intenzione di mettersi in cammino.

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