Questo tempo difficile, caratterizzato dalla pandemia, ci lascia molte lezioni ancora da imparare, da metabolizzare. Questo perché è stato ed è un tempo che ci mette a nudo. Un tempo che fa trasparire le fragilità della nostra economia, che ci sbatte in faccia le ingiustizie della nostra società. Un tempo che mostra tutte le crepe del nostro sviluppo poco equo e per niente sostenibile.
La speranza prevalente che circola è che passando il tempo passino anche il Covid e i suoi effetti, grazie a una cura o alla vaccinazione di massa. E così si insinua tra di noi la pericolosa convinzione che dobbiamo soltanto resistere, evitare affollamenti, sostenere i settori in difficoltà e… per il resto aspettare. Aspettare come si fa in una giornata di pioggia: stiamo alla finestra e aspettiamo che passi, tornerà il sole.
Anche no. Questa messa in trasparenza dei nostri difetti, questo disvelarsi dei problemi strutturali che rendono fragile il nostro sistema, deve aiutarci a far sì che “dopo” tutto non torni come “prima”. Questo acceleratore, questa lente di ingrandimento rappresentata dal Covid ci ha aperto gli occhi, per cui possiamo vedere più in là, immaginare e iniziare a costruire un futuro più giusto, più coeso, a partire da una relazione diversa tra le persone e da un nuovo rapporto con l’ambiente.
La necessità di cambiamento vale innanzitutto per il lavoro, su cui è fondata l’essenza della nostra Repubblica democratica, la quale nella Costituzione riconosce un vero e proprio diritto-dovere universale al lavoro, su cui si sostiene tutto il nostro sistema e che garantisce la coesione sociale. Il lavoro è dignità della persona, per questo va promosso e garantito a ciascuno.
Papa Francesco ci conforta in questo indirizzo, quando, nell’enciclica “Fratelli tutti”, ci dice che “aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per far fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro”.
Oggi si teme che, finita l’emergenza sanitaria, venendo meno il blocco dei licenziamenti, si crei uno tsunami nella società. Ma in realtà di tsunami silenziosi se ne sono già avuti diversi in questi mesi e negli ultimi anni, senza che nessuno abbia alzato la voce per denunciarli. I quasi 500mila posti di lavoro persi finora dall’inizio della pandemia sono quelli dei giovani, dei precari, delle donne, anche mentre vigeva il divieto di licenziamento. Ma questa è solo la punta dell’iceberg.
Se pensiamo al mondo giovanile non possiamo che constatare una serie di difficoltà e storture che pre-esistevano e che sono state soltanto acuite dal Covid. Costringono i nostri giovani a entrare tardi nel mercato del lavoro, ad accettare situazioni precarie, sottopagate e troppo spesso al di fuori delle proprie aspirazioni.
In molti casi i giovani sono “costretti” a espatriare e nel peggiore dei casi, ma in modo massiccio, assistiamo al silenzioso formarsi dei Neet, una sorta di suicidio sociale che da “male individuale” sta diventando una catastrofe per la collettività. Ricordiamolo, sono oltre 2 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni oggi in Italia che non studiano, non lavorano e nemmeno più cercano lavoro.
Nel “Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione 2020” del Cnel, i dati su giovani inattivi e occupazione femminile sono impietosi. Sono soprattutto le donne ad aver pagato il prezzo più alto della crisi pandemica. Più esposte a lavori precari, in particolare nei settori dei servizi, le donne in Italia continuano a essere di solito meno coinvolte nel mondo del lavoro: la quota di occupazione femminile nel nostro Paese, infatti, è al di sotto delle medie europee.
Una situazione che rischia di peggiorare ulteriormente se la crisi di governo innescata nei giorni scorsi continuerà a frenare il lavoro di programmazione e pianificazione dell’impiego delle risorse del Recovery fund. Occorre un accordo di legislatura che riporti al centro la gestione dei fondi europei per un massiccio investimento sul lavoro, sulla sanità, sulle infrastrutture.
Anche in ambito politico e istituzionale, nel futuro, dovremo immaginare un cambio di passo. La pandemia ha dimostrato come servano meccanismi di risposta rapidi ed efficaci alle istanze, vecchie e nuove, dei cittadini e una visione complessiva di come vorremmo che diventi il nostro Paese in futuro.
Oggi, quindi, ci è data l’opportunità di non stare alla finestra e di mettere in discussione i vecchi modelli. Ma come intervenire? Con quali strumenti? Vorremmo concentrarci su due aspetti che riguardano il lavoro e che riteniamo di particolare importanza.
Innanzitutto, occorre concentrarsi sul segmento alto del sistema educativo (Istruzione e Formazione Professionale – IeFP-, scuola secondaria, università), ricordando che esso non riesce né a trattenere molti dei giovani studenti per svilupparne le conoscenze – e difatti registriamo che, nella fascia 18-24 anni, un buon 13,5% non ha completato il ciclo di istruzione secondaria superiore e che la percentuale dei laureati italiani è tra le più basse d’Europa – né a fornire competenze richieste nel mercato del lavoro da enti ed imprese (il cosiddetto mismatch). L’offerta di istruzione secondaria e i percorsi universitari dovrebbero essere programmati con maggiore attenzione alle necessità del mercato del lavoro; la componente professionalizzante e tecnica del sistema educativo nazionale (in particolare l’IeFP e gli Its) andrebbe fortemente sviluppata in tutte le Regioni: siamo molto indietro rispetto a Francia o Germania, pur essendo il secondo paese manifatturiero d’Europa.
In questo senso, proposte come quella presentata da Forma (l’associazione degli enti di formazione professionale italiani) di utilizzare le risorse del Recovery fund per finanziare l’apprendistato duale ed estenderlo ai Neet, potrebbero fare la differenza, dando una nuova opportunità a tanti giovani oggi esclusi.
L’Italia, poi, per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, si è sempre distinta per livelli di spesa pubblica ben al di sotto della media Ocse, e soprattutto inferiori rispetto alle politiche passive implementate. Oggi la spesa per le politiche passive supera il 75% della spesa complessiva per il lavoro e quello che residua è investito spesso male, in incentivi monetari che non stimolano la crescita, ma intervengono solo sulla superfice del problema.
Abbiamo bisogno di un radicale cambio di paradigma: investire e credere nelle politiche attive del lavoro, come mezzo per sostenere la buona occupazione e lo sviluppo, significa comprendere anzitutto che la nostra attenzione deve essere spostata sui servizi e sulla formazione, più che sugli incentivi e le dazioni. Servono strumenti di potenziamento delle occasioni di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Nuove infrastrutture fisiche e digitali, nuove risorse preparate per orientare e formare coloro che sono alla ricerca di lavoro.
Dallo sviluppo e dal lavoro dipenderà anche il futuro del sistema di welfare nel nostro paese. Sanità, istruzione, assistenza, previdenza dipendono e dipenderanno da quanto valore riusciremo a custodire ed esprimere in termini di crescita economica e coinvolgimento-attivazione delle energie dei lavoratori, soprattutto dei più giovani, oggi spesso tenuti ai margini.
Come ci ricorda il Papa, non possiamo più permetterci “di restare fuori da dove si genera il presente e il futuro”. O saremo coinvolti “o la storia” ci “passerà sopra”.