Il modello Gol per le politiche attive del lavoro dovrebbe partire a breve. Il confronto Stato/Regioni, che si era bloccato sul metodo di calcolo per il riparto dei fondi ha trovato una soluzione almeno per il primo periodo. È un fatto importante perché finalmente vi è un modello nazionale di riferimento.

Che cosa succederà nella realtà è però più difficile da prevedere, perché solo una minoranza delle regioni ha già un proprio modello di politiche del lavoro con una governance, un sistema informativo e un’esperienza di rete di servizi fra operatori pubblici e privati. La misurazione in termini di efficienza ed efficacia delle risorse che arriveranno alle regioni già in questi ultimi mesi dell’anno servirà a definire le linee di sviluppo dei servizi nei prossimi anni e le azioni sussidiarie da mettere in campo.



Eppure sommando alle risorse destinate alle politiche attive quanto previsto per la formazione avremo a disposizione fondi che dovrebbero permettere di affrontare pienamente le caratteristiche negative che caratterizzano il nostro mercato del lavoro.

Nell’ultimo periodo molto si è detto sul mismatching esistente fra domanda e offerta di lavoro. La discussione è sembrata concentrarsi sul fatto che vi sono posti di lavoro che non trovano candidati. La ragione di questo fatto si è imputata all’effetto perverso del Reddito di cittadinanza che sarebbe superiore al salario offerto e, in altri casi, al fatto che non vi sono percorsi formativi che preparano per professionalità richieste dalle imprese. La lettura che si dà è quindi di una domanda delle imprese che non incontra un’offerta disponibile.



Il tema dell’inadeguatezza della nostra formazione professionale, del ritardo con cui si sta sviluppando il sistema duale e soprattutto il ritardo della crescita degli Istituti tecnici superiori sono questioni note e ben presenti nel Pnrr. Serve però uno sguardo più ampio per comprendere perché il nostro non è un mercato del lavoro per i giovani. Vi è anche un mismatching inverso. Anche in un Paese dove i giovani che arrivano a una preparazione terziaria, ossia almeno al livello triennale dell’università, sono ancora pochi. Dove se guardiamo a quanti seguono percorsi tecnico-scientifici ed economici si denuncia una carenza preoccupante di giovani adeguatamente formati, abbiamo però una quota dell’offerta di lavoro che non trova un’occupazione corrispondente al proprio livello di preparazione e soprattutto riceve proposte di sotto inquadramento con conseguente insoddisfazione dei livelli salariali attesi. Buona parte di questi giovani prendono la via dell’estero o ritardano l’entrata nel mercato del lavoro, almeno quando possono permetterselo.



Per affrontare il tema non basta certo sostenere che si deve migliorare i sistemi informativi e di trasparenza fra domanda e offerta di lavoro. Se prendiamo le analisi macroeconomiche classiche dobbiamo prevedere una politica di aumenti salariali. Sarebbe questa la risposta migliore alla trappola della povertà, creata dal Reddito di cittadinanza (che sarebbe rafforzata da una decisione di stampo populista sul salario minimo), e darebbe spazio per il riconoscimento economico a tutte quelle figure professionali che nel corso della pandemia hanno dimostrato essere fondamentali per la resilienza sociale (dai lavoratori della sanità alle cassiere agli addetti della logistica).

La scelta di perseguire una politica di sviluppo che metta al centro il recupero di salari e profitti a scapito delle rendite è la sfida principale per la politica dei prossimi anni. La prima scelta è abbandonare decisamente tutte le misure di ristori, redditi garantiti e prepensionamenti se slegati da scelte a favore del lavoro e della produttività. Insomma, tornare ad avere coscienza che nessun pasto è gratis. Qualcuno alla fine deve saldare il conto e lo sbilanciamento dei nostri conti pubblici porta a penalizzare i ceti produttivi mentre alimenta rendite di posizione.

In questa prospettiva di sviluppo le politiche attive possono affrontare anche gli altri mismatching, o meglio gap distorsivi, che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. In primo luogo, il tasso di occupazione complessivo che rimane ancora troppo basso e lontano dall’obiettivo del 70% fissato a livello europeo. Devono essere previsti interventi mirati per creare opportunità di lavoro per i giovani, le donne e disoccupati over 50. Ognuna di queste fasce di lavoratori ha proprie caratteristiche su cui calibrare gli interventi. 

Sono interventi sulla contrattualistica per favorire il part-time volontario (può rispondere a esigenze di tanti che per un periodo non possono dare tempo pieno al lavoro) come sulla contribuzione pensionistica per favorire l’allungamento dei percorsi lavorativi senza penalizzare la contribuzione accumulata. Certo è in una prospettiva di crescita economica e di un salto di qualità nella promozione della dignità del lavoro che possono trovare risposte i tanti mismatching che pesano sul nostro mercato del lavoro. 

L’avvio delle politiche attive su tutto il territorio nazionale può rimettere in moto anche reti di mobilità che permettano di affrontare con più strumenti la disoccupazione del Mezzogiorno. Grandi investimenti pubblici per modernizzare le infrastrutture, possibilità di utilizzare forme di co-working e smart working per creare poli produttivi legati a imprese localizzate in altre aree geografiche, misure di semplificazione fiscale e burocratica per localizzazione di nuovi poli produttivi sono tutte misure per lo sviluppo economico indispensabili. A queste deve affiancarsi da subito la disponibilità dei Centri per l’impiego a fare rete con operatori privati perché vi siano nuove opportunità di lavoro in altre aree del Paese e che non siano lasciate scoperte. La nuova domanda di welfare, attivo e non passivo, riguarda i sostegni alla mobilità di chi è disposto a raggiungere il lavoro e non ad assicurare il reddito a chi lo aspetta sotto casa.

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