L’Istat ha pubblicato i dati del primo trimestre 2019 sul mercato del lavoro. Come tutti quelli riferiti al breve periodo, anche questi si prestano a letture apologetiche o tragiche, se riferiti alle politiche attuate nell’ultimo periodo, a seconda delle preferenze personali. Ciò è sempre possibile proprio perché il trimestre si presta con i suoi +0,1% o – 0,21% ad amplificare le posizioni pregiudiziali dicendoci però poco sui mutamenti di fondo che sono in corso. Ciò che esce confermato dai principali dati è il fatto che il lavoro è creato dalla crescita economica e non dalla legislazione. Questa, sommata con le politiche attive del lavoro, può favorire l’incontro fra domanda e offerta, ma da sola non crea nuova occupazione.
I dati del primo trimestre dell’anno hanno registrato una crescita del Pil (+0,1%) dopo un semestre con segno negativo. A fronte di ciò si registrano un identico aumento dell’occupazione (+0,1%) e un incremento delle ore lavorate (+0,7%). Se l’aumento occupazionale risulta minimo (+0,1% significa 25.000 nuovi assunti), tale saldo risulta da un andamento indotto probabilmente dagli interventi legislativi fatti nei mesi precedenti. In particolare, si registra un aumento dei dipendenti permanenti inferiore al calo dei dipendenti a tempo determinato. Il decreto dignità ha prodotto più disoccupati che posti di lavoro permanenti. Ma il saldo positivo è dato dalla crescita dei lavoratori indipendenti.
Si scontrano qui due concezioni della flessibilità (precarietà o no?) che continuano a creare situazioni di incertezza verso figure di lavoratori autonomi. Assieme al Jobs Act si era introdotta una legislazione tesa a contenere il ricorso a contratti autonomi che mascheravano in realtà rapporti di lavoro subordinato. Ciò insieme all’introduzione di misure di tutela anche per i lavoratori autonomi (congedo di maternità, malattia, ecc.) che avviava concretamente la necessità di estendere le tutele del lavoro subordinato anche ad alcune fasce di lavoro autonomo. Con il nuovo Governo è prevalsa l’ideologia del lavoro semplificato. Si sono giudicati tutti i lavori a termine come indicatori di situazione di precarietà da un lato e dall’altro si è operata una manovra fiscale di vantaggio per le partite Iva sotto un certo tetto di reddito. Il combinato disposto dei due provvedimenti è stato quello di spostare un po’ di lavoratori da contratti a termine a tempo indeterminato. Ma un numero maggiore è quello dei lavoratori a termine che non hanno avuto il rinnovo e sono stati lasciati a casa. Per una parte di questi, dove la professione lo consente e l’impresa ha dato disponibilità, il rapporto di lavoro si è riaperto in forma di prestazione autonomo con partita Iva.
È evidente che il tentativo di semplificazione ha portato, almeno a parere di chi scrive, un aumento di precarietà e il ritorno a rapporti di lavoro autonomo che mascherano in realtà un lavoro subordinato che troverebbe maggiori tutele in qualsiasi altro contratto, sia questo a termine o anche di somministrazione. A conferma che la situazione del lavoro non è ancora quella di un mercato in crescita (sia in quantità che qualità) c’è il fatto che il totale dei dipendenti a termine è oggi del 16% (+0,3% nell’ultimo anno) e l’incidenza del part-time involontario supera il 64%.
A questo quadro possiamo aggiungere che è piovuto solo dove già c’era abbondanza d’acqua. La crescita dell’occupazione, anche se come visto molto contenuta, è stata concentrata al nord e al centro (+1,4% e +0,3% rispettivamente). Per il secondo trimestre consecutivo il sud ha registrato un calo (-0,6%) che contribuisce ad accentuare gli squilibri fra le diverse regioni del Paese. Certo, visti i dati, le famose misure espansive che sarebbero state prese dal Governo in carica non hanno cambiato i dati di fondo del mercato del lavoro.
A riprova di ciò sono i molti sondaggi che sono circolati in occasione delle elezioni europee. Tralasciando quelli finalizzati a rilevare l’orientamento di voto e guardando quelli sulle preoccupazioni che attraversano il corpo elettorale, emerge come il tema del lavoro sia tornato a essere la preoccupazione centrale per la maggioranza della popolazione. È una preoccupazione che unisce il lavoro che non c’è per i più giovani, a quello a rischio per le classi di età centrali e la difficoltà a trovare un’occupazione consona alla propria esperienza per i più anziani. E a questa sostenuta preoccupazione si somma una trasformazione produttiva che in molti settori determina un demansionamento degli occupati con un calo delle retribuzioni nette a parità di impegno lavorativo.
Da qui una necessaria riflessione sulle tutele che devono essere messe in atto in questa fase di trasformazione per aiutare chi ne resta coinvolto e per disegnare un nuovo patto sociale che riconosca a tutti nuove opportunità di lavoro e di crescita professionale.