Nel dicembre 2021 il tasso di occupazione italiano è tornato sul livello precedente alla crisi covid (59%), segnalando, anche in modo simbolico, il ritorno alla normalità dopo un ciclo di provvedimenti straordinari di natura extraeconomica che hanno alterato l’andamento ordinario della produzione e del mercato del lavoro. Sembra essere l’occasione giusta per cercare di comprendere quanto avvenuto, per evidenziare le criticità, i nuovi fabbisogni di intervento e per valutare la congruità delle politiche del lavoro che sono state messe in campo dal Governo e dal Parlamento per gestire l’uscita dal blocco dei licenziamenti e sostenere la ripresa dell’occupazione.
Come puntualmente segnalato da molti commentatori, il recupero del tasso di occupazione non coincide con quello dei numeri occupazionali del febbraio 2020, perché mancano all’appello circa 200 mila posti di lavoro. Il tasso di occupazione cresce più velocemente perché nel frattempo è diminuita la popolazione in età di lavoro. Questa tendenza merita attenzione perché destinata a influenzare la lettura degli andamenti del mercato del lavoro dei prossimi 20 anni per la perdita di circa 6 milioni di persone in età di lavoro, per via degli esodi pensionistici delle generazioni del baby boom.
Nel 2021 sono stati recuperati ben 540 mila posti di lavoro rispetto all’anno precedente. Il recupero ha tre caratteristiche:
– riguarda essenzialmente i lavoratori dipendenti (+590 mila), mentre prosegue la riduzione di quelli autonomi (-50 mila), a conferma di una tendenza strutturale che è in atto dalla precedente crisi economica;
– è avvenuto soprattutto per la componente dei rapporti di lavoro a termine (+430 mila), tornati anche sui livelli antecedenti la crisi Covid, poco oltre i 3 milioni, rispetto a quella a tempo indeterminato (+134 mila). La prevalenza delle assunzioni a termine è per la gran parte motivata dalla ripresa delle tipologie di contratti che erano state maggiormente penalizzate dalle chiusure temporanee delle attività economiche, in particolare nei servizi, e dalle incertezze legate al proseguo della pandemia;
– risulta particolarmente consistente per la componente femminile (+377 mila) e per quella dei giovani under 35 (+306 mila).
Queste tendenze mettono in rilievo alcuni fattori strutturali destinati ad avere un peso rilevante sul futuro del nostro mercato del lavoro. L’impatto della decrescita della popolazione in età di lavoro, già ricordato in precedenza, favorirà la crescita del tasso di occupazione. Per farci un’idea, se rimane costante l’attuale numero delle persone che lavorano nei prossimi 5 anni, il tasso di occupazione aumenterebbe del 3%. Potrebbe sembrare una buona notizia, ma nella realtà non lo è affatto. Perché nel frattempo sono destinate ad aumentare le persone a carico delle persone che lavorano per via dell’invecchiamento della popolazione, con crescenti problemi di sostenibilità per il reddito pro capite e per la spesa pubblica. Per rendere sostenibile la crescita economica deve crescere in modo consistente il numero assoluto degli occupati per avvicinarsi alla media degli altri Paesi europei, con un saldo positivo ulteriore di almeno due milioni di nuovi occupati, e la produttività del lavoro.
Il ricambio generazionale e di genere, date le caratteristiche delle nuove corti di ingresso, è destinato ad avvenire in modo spontaneo. Allo stato attuale è la qualità di questo ricambio, contrassegnata dai lavori a termine e a orario ridotto, che non è particolarmente esaltante.
L’attenzione delle autorità politiche e di molti commentatori rimane concentrata sull’aspetto quantitativo dei contratti a termine, identificati come l’indicatore della precarietà del nostro mercato del lavoro. Ma se prendiamo visione delle statistiche Eurostat sulla materia notiamo che l’incidenza dei contratti a termine e di quelli part-time risulta del tutto in linea con la media degli altri Paesi Ue. A essere disallineati in negativo sono: il tasso di occupazione, per un equivalente di 3,5 milioni di posti di lavoro a parità di popolazione; i livelli di sottoutilizzo dei lavoratori occupati, in particolare dei lavoratori immigrati; la quota del lavoro irregolare; una quota enorme di persone in età di lavoro, compresi i giovani che non studiano e non lavorano, che non sono attivi nella ricerca di un lavoro. Infatti, il tasso dei lavoratori inattivi è l’unico che rimane ancora al di sopra del livello precedente la crisi Covid.
Lecito ritenere che siano particolarmente queste le cause dell’impoverimento dei redditi familiari, assai più dell’impatto negativo della componente dei contratti di lavoro a termine o con orario ridotto.
L’incidenza di questi ultimi risulta particolarmente elevata in alcuni settori (i servizi alle persone, l’agricoltura, le costruzioni, gli alberghi, la ristorazione, la logistica, le pulizie, le attività commerciali) caratterizzati dalla stagionalità della domanda, da una rilevante mobilità lavorativa, elevate quote di lavoro sommerso e una forte presenza di lavoratori immigrati. Settore agricolo a parte, sono anche le attività economiche che risultano sottodimensionate in termini di valore aggiunto, produttività e occupazione rispetto agli altri Paesi europei. Quelle dove è lecito attendere la crescita del Pil e dell’occupazione nei prossimi anni con caratteristiche diverse da quelle attuali per via dell’impatto delle tecnologie digitali, che potenzialmente possono offrire un grande contributo per contrastare il lavoro sommerso. Un percorso che non sarà lineare ma selettivo, perché comporterà forti adeguamenti delle organizzazioni produttive e dei posti di lavoro.
La crescita dell’occupazione e la qualità dei posti di lavoro rimangono essenzialmente condizionate dall’intensità degli investimenti, dal ricambio imprenditoriale e dall’adeguamento delle competenze dei lavoratori. Sull’onda di quanto avvenuto nel corso della precedente crisi economica nelle aziende manifatturiere ed esportatrici, che non a caso sono l’asse portante dell’attuale ripresa economica.
Le politiche del lavoro messe in atto nello scorso anno sono coerenti con i fabbisogni dell’economia e del nostro mercato del lavoro?
L’attenzione prevalente del Governo e del Parlamento è stata rivolta a contenere gli effetti della fuoriuscita dal blocco dei licenziamenti. Al punto di rendere strutturale, con la riforma degli ammortizzatori sociali, la generalizzazione dell’utilizzo delle casse integrazioni. Riforma che aumenta gli importi dei sostegni al reddito e riduce i requisiti contributivi per l’accesso alle prestazioni.
Come più volte affermato dal ministro del Lavoro Orlando, l’obiettivo principale è stato quello di consolidare i provvedimenti in deroga assunti nel corso della pandemia. Ma la natura di questi sostegni era giustificata dalle fermate delle attività per motivi extraeconomici e dall’esigenza di salvaguardare gli asset produttivi. Nei prossimi anni la priorità diventa quella di concentrare le risorse verso le attività più produttive, in grado di generare buona occupazione con remunerazioni più elevate. La priorità diventa quella di rendere sostenibile la mobilità del lavoro e di non disperdere risorse nelle politiche passive per tenere in vita posti di lavoro obsoleti.
La ripresa del mercato del lavoro ha smentito le previsioni apocalittiche di una mole ingestibile di licenziamenti in uscita dal divieto introdotto temporalmente per via legislativa. All’opposto si sta verificando una crescente difficoltà delle imprese nel reperire i profili richiesti di diversa natura. Non solo personale tecnico con qualifiche medio-alte e operai specializzati, dove la difficile reperibilità riguarda il 50% delle potenziali assunzioni, ma anche personale che dovrebbe essere assunto, con contratti regolari, per svolgere mansioni che non richiedono lunghi percorsi di apprendimento. In parallelo, questa eccedenza di domanda di lavoro sta stimolando, in particolare nel settore delle costruzioni e nelle aree del nord Italia, il fenomeno delle dimissioni volontarie dei lavoratori che vengono assunti da altre imprese con migliori condizioni di lavoro.
Alcune di queste contraddizioni, a partire dalla necessità di rimediare alla carenza di competenze tecnico-scientifiche nel mercato del lavoro, richiederanno tempi lunghi di intervento, sempre ammesso che il tema dell’adeguamento dei sistemi formativi venga affrontato in modo appropriato. Questo discorso vale anche per compensare il vuoto che si è generato per il mancato ricambio generazionale nella vasta componente dei mestieri, professionisti, artigiani, operai specializzati, manutentori, riparatori, personale sanitario e dell’assistenza. Lavoratori autonomi e dipendenti che hanno svolto un ruolo storico importante nel mercato del lavoro italiano.
Le politiche attive del lavoro messe in campo con una quota delle risorse del Pnrr si propongono, per i prossimi 5 anni, l’obiettivo della presa in carico e dell’inserimento lavorativo di 3 milioni di disoccupati e/o beneficiari di sostegno al reddito, la promozione di corsi di formazione per almeno 800 mila e l’avviamento di 135 mila giovani in percorsi di alternanza tra scuola e lavoro. Potenziando per queste finalità i Centri pubblici per l’impiego. Sul tema ho già avuto modo di esprimere alcune critiche riguardo l’efficacia del programma. Giova evidenziare in questa sede che i numeri citati non sono altro che la riproduzione di quanto potrebbe avvenire in via ordinaria in assenza del programma citato e senza particolari conseguenze, come già dimostrato nei programmi Garanzia Giovani e Reddito di cittadinanza, sulle dinamiche reali del mercato del lavoro.
L’aspetto più inquietante del nostro mercato del lavoro è stata la crescita di un potenziale esercito di riserva di persone in età di lavoro disoccupate e inattive (circa 5,5 milioni, ivi compresi i 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano), oggetto di una perenne retorica della precarietà e della povertà, che viene utilizzata per allargare le maglie della spesa assistenziale. In particolare, viene scientemente sottovalutato il degrado degli approcci valoriali e delle aspettative mal riposte rispetto alle dinamiche reali del mercato del lavoro, che motivano una parte significativa della disoccupazione volontaria.
Chi si permette di evidenziare questo problema di solito viene definito come un moralista fuori dal tempo. Ma nella realtà a essere moralistiche sono le politiche che ritengono di affrontare questi problemi con supplementi di diritti, di vincoli per la gestione dei rapporti di lavoro, di quote obbligatorie per le assunzioni, con l’introduzione di redditi e di salari garantiti per legge, e decine di miliardi per incentivare assunzioni a tempo indeterminato che non si rivelano tali. Il tutto senza affrontare le cause che sono all’origine di questi fenomeni.
In un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, il Presidente dell’Inps, e ispiratore del Reddito di cittadinanza, Pasquale Tridico, afferma testualmente: “Nel momento in cui non esiste in Italia un salario minimo legale, avere un reddito di cittadinanza di 500 euro mensili non può costituire un disincentivo quando le paghe sono così basse. Se le paghe sono così basse i lavoratori hanno tutto il diritto di rifiutarle e di vivere con il reddito di cittadinanza”. Con poche parole il nostro Presidente dell’Inps, oltre che far sembrare stupidi i milioni di lavoratori che svolgono ordinariamente queste attività, conferma che la funzione dei sostegni al reddito è quella di consentire agli interessati di rifiutare offerte di lavoro contrattualmente regolari, senza incorrere nelle sanzioni previste dalla normativa.
Per non farci mancare niente, nella medesima intervista comunica agli italiani che, in assenza di una crescita significativa del numero degli occupati, il sistema previdenziale italiano non sarà sostenibile. Ogni commento è del tutto superfluo.
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