Nel mercato del lavoro italiano negli anni che intercorrono tra il 2008 e il 2022, caratterizzati da due grandi crisi economiche, sono avvenute grandi trasformazioni.
In un recente articolo abbiamo evidenziato come, nell’ambito di una sostanziale parità del numero degli occupati (circa 23 milioni) siano avvenuti: un rilevante invecchiamento delle forze lavoro; la riduzione delle ore lavorate, per via del consistente incremento dei rapporti di lavoro part-time; una contrazione dei lavoratori autonomi compensata da un aumento di quelli dipendenti; un generale indebolimento dei contenuti qualitativi delle prestazioni lavorative con un significativo aumento dei rapporti di lavoro con bassa qualificazione.
La contrazione della popolazione giovane in età di lavoro, aggravata dalla riduzione del tasso di occupazione degli under 35, ha generato conseguenze negative sul ricambio generazionale nella fascia media di età del nostro mercato del lavoro. L’incidenza della popolazione straniera è aumentata in modo significativo (+800 mila unità), compensando l’analoga diminuzione della popolazione autonoma e in particolare la carenza di un’offerta disponibile per svolgere le mansioni meno qualificate.
Nelle comparazioni con i Paesi aderenti all’Ue sono aumentati i divari per gli indicatori quantitativi (il tasso di occupazione generale, quelli relativi ai giovani e alle donne e ai divari territoriali interni ai singoli Paesi) e per quelli qualitativi (numero dei laureati sulla popolazione in età di lavoro, entità degli investimenti per la qualificazione delle risorse umane) marcati dal record negativo, superiore ai 3 milioni, dei giovani under 35 che non studiano e non lavorano.
I numeri relativi alla quantità degli occupati sul totale della popolazione sono destinati a peggiorare in relazione alla riduzione delle persone in età di lavoro già in atto e destinata ad aumentare (-4 milioni entro il 2040) con l’uscita dal mercato del lavoro delle generazioni baby boomers, con riflessi negativi anche per la sostenibilità delle prestazioni sociali.
L’indagine Excelsior (Anpal-Unioncamere) sulle previsioni occupazionali 2022-2026, che tiene conto dell’impatto degli investimenti del Pnrr, mette in evidenza che almeno un terzo del fabbisogno occupazionale di 4,1 milioni di lavoratori (2,8 per turnover e 1,3 aggiuntivi) riscontra gravi problemi di reperibilità. Particolarmente elevate per i profili tecnico scientifici (fino a punte del 70%) e per le specializzazioni acquisite nell’ambito dei percorsi lavorativi (superiori al 50%) e comunque rilevanti anche per le mansioni che non richiedono significativi percorsi di apprendimento (20% ma in costante crescita). Numeri che confermano il fallimento delle politiche del lavoro sul triplo versante della regolazione dei rapporti di lavoro, degli investimenti formativi sulle risorse umane e delle politiche attive finalizzate ad agevolare l’orientamento e l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Ma nonostante ciò, le medesime politiche fallimentari messe in campo nell’ultimo decennio, in particolare per l’obiettivo di contrastare la cosiddetta precarietà del lavoro (la produzione di norme rivolte a ridurre l’utilizzo dei rapporti a termine, l’ampliamento dei sostegni al reddito, gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato o a favore delle categorie svantaggiate, le risorse pubbliche finalizzate a incrementare i salari, l’anticipazione dell’età pensionabile, il potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego) rimangono l’oggetto privilegiato degli interventi adottati anche nei tempi recenti e dei programmi delle principali forze politiche che si affrontano nelle competizione elettorale.
Un approccio caratterizzato dalla pretesa di forzare i comportamenti delle imprese, delle persone e persino delle rappresentanze sociali con supplementi di regolazione legislativa (l’ultima trovata è la pretesa di imporre il salario minimo legale), e la distribuzione acefala di decine di miliardi di euro alle Regioni per finanziare Centri per l’impiego e corsi di formazione, rinuncia a costruire un sistema di politiche attive del lavoro che coinvolga in presa diretta gli attori economici e sociali.
Queste politiche si sono rivelate onerose, in particolare quelle destinate ad aumentare i sostegni al reddito, gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato e l’anticipazione dell’età pensionabile. Quest’ultima con effetti di trascinamento nel medio periodo per la spesa previdenziale. Tanto da rappresentare nell’insieme la quota più rilevante dei trasferimenti di risorse a carico dello Stato, superiore ai 300 miliardi nel corso dell’ultimo decennio, verso il fondo per le prestazioni assistenziali dell’Inps (Gias). Nel frattempo i contratti a termine sono aumentati di un milione rispetto al 2008.
I principali nodi irrisolti del nostro mercato del lavoro sono particolarmente due: come rigenerare una popolazione attiva adeguata a soddisfare i fabbisogni del sistema produttivo e il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per assicurare le prestazioni sociali di un Paese che registra un forte invecchiamento della popolazione; come rendere sostenibile la mobilità lavorativa e l’impatto delle innovazioni tecnologiche e organizzative sull’occupazione e sull’occupabilità delle risorse umane.
L’esercito di riserva per incrementare il tasso di occupazione e il numero assoluto degli occupati (almeno 2,5 milioni nel decennio in corso per mantenere inalterato il rapporto tra popolazione attiva e persone a carico), è rappresentato da circa 5 milioni di persone disoccupate o inattive disponibili a lavorare. La buona notizia è rappresentata dalla spinta naturale all’aumento del tasso di occupazione dei giovani e delle donne, obbligata dalla carenza di forze lavoro disponibili alternative.
La cattiva notizia proviene dalla scarsa occupabilità di buona parte di queste persone, complicata anche dalla crescente indisponibilità di una parte consistente delle stesse ad accettare offerte di lavoro che presentano disagi lavorativi in termini di orario e di flessibilità lavorativa. Una tendenza negativa, che viene però incredibilmente giustificata da un nutrito stuolo di cattivi maestri: politici, sindacalisti e presunti esperti del mercato del lavoro che pensano di risolvere queste criticità con un sovraccarico di nuovi ingressi di immigrati con bassa qualificazione.
In effetti, la crescita del numero delle persone autoctone assistite dallo Stato, o comunque a carico delle famiglie, è aumentata in parallelo a quella degli immigrati (+800 mila) nel periodo preso in considerazione che ha assicurato i quattro quinti del turnover generale del mercato del lavoro. L’elevata incidenza dei lavori a termine. delle basse remunerazioni dei lavoratori stranieri e la quota rilevantissima di prestazioni sommerse offrono una spiegazione alla tenuta del modello di sottosviluppo del nostro mercato del lavoro. Ma anche della quota rilevantissima della popolazione straniera in condizioni di povertà assoluta (31%).
L’altro effetto di compensazione del mismatch tra la domanda e offerta di lavoro viene offerto dall’altra faccia dell’arcipelago del lavoro sommerso popolato dalle prestazioni non dichiarate di lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati, beneficiari di sostegni al reddito, studenti e casalinghe, rimasto quantitativamente inalterato nel corso dell’ultimo decennio e che svolge un ruolo fondamentale nella tenuta economica di molti settori e nella produzione e redistribuzione del reddito.
Questo equilibrio da sottosviluppo del mercato del lavoro risulta incompatibile con i nuovi fabbisogni di innovazione dei sistemi produttivi, di produttività e di qualificazione delle risorse umane. Il tema riguarda trasversalmente la capacità di attrarre investimenti, e risorse umane qualificate. Una missione che impone un cambiamento anche delle politiche migratorie finalizzate al mercato del lavoro per renderle più selettive e ancorate ai fabbisogni professionali.
Aumento del tasso di occupazione, qualificazione delle risorse umane, contrasto del lavoro sommerso, politiche migratorie selettive, aumento della produttività, sono le vie maestre per rigenerare il nostro mercato del lavoro. Ma se vogliamo cogliere dei risultati tangibili, il taglio delle politiche del lavoro deve essere radicalmente diverso da quello praticato negli anni 2000.
In un recente articolo, il Presidente di Adapt Emmanuele Massagli ha evidenziato in modo efficace come il perseguimento di questi obiettivi non possa avvenire tramite una riduzione dei margini di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro, la distribuzione di risorse a pioggia per finanziare sussidi e corsi di formazione, con il mero rafforzamento dei Centri per l’impiego pubblico e delle (improbabili) sanzioni per i beneficiari dei sostegni al reddito che rifiutano le offerte di lavoro. L’alternativa è un complesso di interventi di politica del lavoro, e fiscali, rivolto a premiare il ruolo sussidiario delle imprese e delle parti sociali, agevolando gli accordi aziendali rivolti a migliorare la produttività e le retribuzioni sulla base dei risultati, a potenziare il welfare aziendale, a investire sull’adeguamento delle competenze dei lavoratori. La seconda leva è quella di stimolare i comportamenti proattivi delle persone, in particolare dei beneficiari dei sostegni al reddito, rendendo compatibile, entro certi limiti, l’assegno pubblico con le retribuzioni derivanti dall’accettazione delle nuove offerte di lavoro.
Per queste finalità potrebbero essere promosse delle liste di disponibilità nei territori, coinvolgendo le parti sociali e gli operatori dei servizi pubblici e privati per l’impiego, per favorire l’inserimento lavorativo dei disoccupati e dei beneficiari dei sostegni al reddito.
L’emersione del lavoro sommerso deve essere facilitata da strumenti, come i voucher per remunerare il lavoro occasionale, ovvero con detrazioni fiscali per la spesa delle famiglie che utilizzano colf e badanti e prestazioni di cura domiciliari e territoriali per la cura dei minori e degli anziani non autosufficienti. Un approccio ancora più rivoluzionario potrebbe essere rappresentato dalla scelta di remunerare in modo consistente, e agevolato dal punto di vista fiscale, il disagio lavorativo (ad esempio il lavoro a turno, notturno e nei weekend) e il lavoro manuale.
Gli Enti bilaterali promossi dalle parti sociali per potenziare i programmi di formazione continua delle imprese per i lavoratori dipendenti potrebbero assumere una funzione centrale anche per facilitare la mobilità lavorativa dei lavoratori in uscita e in entrata delle imprese, i percorsi di alternanza tra scuola lavoro e di inserimento lavorativo dei giovani in uscita dai cicli scolastici. L’obiettivo dovrebbe essere quello di offrire a tutte le persone opportunità di formazione, aggiornamento e riqualificazione con offerte personalizzate, certificate.
L’allungamento dell’età pensionabile è una componente indispensabile per la tenuta della popolazione attiva e la sostenibilità delle prestazioni sociali. Deve essere affiancato da programmi che favoriscano la sostenibilità dell’invecchiamento attivo nel contesto produttivo, o di utilizzo sociale, che rendano compatibili quote di prestazioni lavorative e di rendite pensionistiche, favorendo anche la possibilità di utilizzare i contributi previdenziali aggiuntivi per rivalutare le rendite pensionistiche.
La prospettiva delle politiche del lavoro è quella della costruzione di sistemi di dialogo tra attori pubblici e privati, con il concorso attivo e responsabile delle persone. Spiace affermarlo, ma sul terreno delle politiche del lavoro, l’eredità del Governo Draghi è rimasta molto distante dal proposito annunciato di ridurre la spesa assistenziale per favorire l’utilizzo produttivo delle risorse. Un’occasione persa, forse irripetibile, per invertire la rotta.
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