Siamo in una recessione demografica che si sta cronicizzando, con conseguenze di medio e lungo periodo peggiori di quella economica. Gli squilibri della popolazione italiana sono arrivati a livello tale che siamo il primo Paese in Europa che ha visto scendere i nuovi nati sotto il numero degli attuali ottantenni. C’è un dato particolarmente allarmante che spesso sfugge: vero è che vi sono motivi di carattere economico nella denatalità (famiglia che mantiene i giovani nel nucleo, mancanza di abitazioni per coppie, un mercato del lavoro che chiede figure professionali poco reperibili, mancanza di flessibilità lavorativa per le madri, pochi servizi), ma non vanno sottovalutati altri aspetti importanti che attengono agli stili di vita e a processi culturali consolidati che non si modificano con interventi di sostegno. Il fenomeno della denatalità è in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni.



In questa fascia di popolazione, le donne italiane – sottolinea l’Istat – sono sempre meno numerose e – aggiungiamo – la fertilità maschile è drasticamente in calo. Secondo il Registro Nazionale sulla Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto superiore di Sanità, tra le coppie che si rivolgono ai centri specializzati per avere un figlio, la percentuale di uomini infertili è del 29,3% e l’età non rappresenta l’unico fattore responsabile. Negli uomini italiani in generale viene riportato che il numero dei gameti è diminuito del 50% rispetto al passato. A nuocere sulla qualità degli spermatozoi (aumentando quindi il rischio infertilità) ci sono spesso le condizioni lavorative: quelle che espongono a radiazioni, a sostanze tossiche o a microtraumi. Influiscono negativamente anche gli inquinanti prodotti dal traffico urbano e il fumo di sigaretta.



Per far fronte a questo grave problema, quel che soprattutto serve all’Italia, più che togliere o aggiungere bonus e singole misure, è un approccio diverso, un cambio di paradigma sul modo in cui sono intese le politiche per le nuove generazioni e le scelte familiari. Con la capacità di produrre un impatto trasformativo sulla vita delle persone e sulle varie dimensioni del benessere sociale. Questo significa far diventare le politiche familiari parte centrale delle politiche di sviluppo del Paese: non solo per la denatalità, ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita. Promuovendo l’autonomia dei giovani e rafforzando gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare meglio i propri obiettivi di vita, e le famiglie con figli di proteggersi dal rischio povertà. A livello collettivo si riducono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, si rafforza la crescita economica aumentando la platea (per la maggiore natalità, ma anche per la combinazione al rialzo, con occupazione femminile e giovanile) di chi è attivo e produce ricchezza nel Paese.



Perché è ormai chiaro quali sono i fattori che portano a un continuo posticipo della creazione di una relazione stabile di coppia e della nascita del primo figlio. Quello che ai giovani italiani manca è la possibilità di passare dal sostegno passivo da parte dei genitori a un investimento pubblico in strumenti di attivazione e abilitazione, che consenta a essi di diventare parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo del Paese. È la trasformazione dei giovani da condizione passiva ad attiva a fare la differenza, non tanto il passaggio dal carico sui genitori all’assistenza dello Stato. Poi altrettanto chiaro è il secondo nodo che frena, invece, la progressione oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare impegno esterno lavorativo e interno alla famiglia, difficilmente si rilancia con la nascita di un secondo. Le donne italiane sono schiacciate in difesa, indotte a vedere al ribasso il numero di figli anziché allineare al rialzo l’occupazione femminile.

Dal Report sulla natalità e fecondità nel 2018 anche gli strenui difensori del pensionamento anticipato non possono non riconoscere che la crescente denatalità in sinergia perversa con l’invecchiamento creerà un mare di guai sia per quanto riguarda sia il mercato del lavoro, sia il sistema pensionistico. Il picco dell’invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-2050 quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%. In Italia le politiche di sostegno alle famiglie sono sempre state scarse, marginali, frammentarie. Abbiamo la necessità di politiche più generose e incisive, che allarghino i gradi di libertà per chi desidera assumere responsabilità famigliari verso i piccoli o verso le persone non autosufficienti. E la contrattazione di prossimità dovrebbe allargare il sostegno degli enti bilaterali, che funzionano alla grande per il sostegno al reddito in caso di mancanza di lavoro e per la formazione, alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno problemi di flessibilità lavorativa. Un’operazione di sussidiarietà tra persone che nei vari momenti della vita hanno bisogno di più tempo per le cure dei nostri cari. E soprattutto abbiamo bisogno di semplificare tutta la burocrazia che ruota intorno all’accesso dei vari strumenti di sostegno.

È demenziale il sistema di accesso ai bonus per la maternità e paternità carichi di adempimenti modulistici legati a siti mal funzionanti e spesso rimessi in discussione da provvedimenti che si susseguono in maniera barocca e confusa. Stesso problema quando dobbiamo affrontare le pratiche sia per la non autosufficienza, sia per patologie invalidanti. Sulle politiche per la famiglia fondamentali sono le scelte per l’occupazione femminile. Uscire dal mercato del lavoro per un periodo prolungato non è mai una buona scelta per una donna, perché rientrarvi è molto difficile, specie in un Paese come l’Italia che ha un mercato del lavoro formale assai rigido e una domanda di lavoro relativamente scarsa. Si deve aumentare l’indennità del congedo genitoriale, ora ferma al 30 per cento dello stipendio e solo per i primi sei mesi (sui dieci complessivi teoricamente disponibili alla coppia di genitori) e legarvi automaticamente, non su domanda, contributi figurativi. In questo modo, si rafforzerebbe la possibilità di scelta di prendersi tempo per la cura non solo per le madri, specie a basso reddito, ma anche per i padri.

Come ci invita caldamente la Direttiva Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 12 luglio, D UE n. 2019/1158 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza che noi dobbiamo recepire entro il 2021, il rafforzamento del congedo genitoriale con queste caratteristiche non favorisce solo un riequilibrio dei compiti di cura tra madri e padri. Garantirebbe più tempo genitoriale (materno e paterno) ai bambini nel primo anno di vita, perché più genitori potrebbero permettersi di prendere tutti i dieci mesi dividendoseli tra loro. Fondamentali anche strumenti adatti al crescente numero di lavoratori e lavoratrici con contratti atipici o semi-libero professionali, specie tra i giovani. Questi non solo non hanno accesso ai congedi genitoriali. Non possono neppure permettersi, dal punto di vista professionale, di stare fuori dal mercato del lavoro troppo a lungo.

Abbiamo problemi evidenti che riguardano i servizi e l’organizzazione del lavoro: ampliamento dei servizi di qualità ed economicamente accessibili per la prima infanzia, per favorire non solo la conciliazione di responsabilità famigliari e lavorative, ma anche le pari opportunità tra bambini; estensione della scuola a tempo pieno, per gli stessi motivi; introduzione per legge del diritto al passaggio al tempo parziale reversibile per chi ha un bambino sotto i tre anni con agevolazioni di credito di imposta e contributivo per le aziende che applicano veramente politiche di flessibilità e non fanno finta di essere family friendly. Abbiamo veri problemi sui trasferimenti monetari quali gli assegni per i figli e il sistema di tassazione. Non sono d’accordo per introdurre il quoziente famigliare, perché crea problemi di gettito, di equità, in quanto favorevole ai più benestanti e scoraggia il lavoro di coppia. Mettiamo ordine, razionalizziamo il disordinato e frammentato complesso di trasferimenti monetari esistenti: assegno al nucleo famigliare, assegno per il terzo figlio in casi particolari, detrazioni fiscali per figli a carico, vari bonus bebè. L’istituzione di un unico trasferimento diretto e universale, eventualmente commisurato al reddito famigliare, sarebbe insieme più efficace e più equo.

C’è poi un dato che spesso si affronta quasi con fatica: l’invecchiamento delle parentele ha fatto emergere anche in Italia i bisogni di cura verso persone fragili o non autosufficienti, ma è un evento normale nel corso di vita individuale e famigliare. Il fenomeno è trascurato, rimosso nelle politiche sociali, che continuano ad affidarsi allo strumento dell’assegno di accompagnamento (peraltro nato per altri scopi), ignorando sia la questione della appropriatezza delle cure prestate, sia il sovraccarico sulle famiglie, di fatto per lo più sulle donne, che la necessità di prestare cura comporta e anche qui abbiamo bisogno di uno spostamento a favore dei servizi. Ma tutto rimane fermo. Anzi, per ribadire l’idea che tocchi alle donne nella famiglia provvedere a questi bisogni, si continua sulla strada dell’Opzione donna, che consente alle donne il “privilegio” di andare in pensione prima per poter fare gratuitamente il lavoro di cura necessario, pagando un prezzo altissimo (stimato attorno al 25 per cento) in termini di decurtazione della pensione. Prezzo che invece non verrà pagato dai fortunati (per lo più uomini del Nord) che avranno i requisiti per andare in pensione con quota 100. Che comunque andrebbe tolta così come il reddito di pigrizia. Quelle risorse diamole al sangue fresco del nostro Paese.