Al Meeting di Rimini Mario Draghi ha sottolineato l’importanza di farsi carico di un orizzonte di lungo periodo, visto che i prestiti dell’Unione europea e il debito pubblico andranno ripagati dai giovani di oggi e di domani. Solo qualche giorno prima Giuseppe De Rita ricordava che le decisioni dei prossimi quattro mesi saranno cruciali per gli anni a venire. È quindi tempo di assunzioni di responsabilità da parte di tutti, a cominciare naturalmente da chi ha maggiori responsabilità politiche, per arrivare fino ai singoli cittadini.



È all’interno di questo contesto che dobbiamo leggere il prossimo incontro tra Cgil, Cisl e Uil e la Confindustria, che si terrà lunedì prossimo. Sembra chiaro e condiviso che il dialogo debba ripartire dal Patto per la Fabbrica, già sviluppato con accordi specifici, in particolare vi sono stati ulteriori accordi/documenti comuni sulla salute e sicurezza e sui Fondi europei. In questi mesi di situazione straordinaria le parti hanno stipulato il Protocollo condiviso del 14 marzo, aggiornato il 24 aprile, che ha rappresentato un punto fermo per far ripartire le attività economiche, dimostrando di avere piena coscienza dell’importanza di procedere in maniera congiunta. Ma ora bisogna guardare al futuro. Se erano giuste e necessarie le misure per garantire a tutti Cassa integrazione, bonus e blocco dei licenziamenti adesso è chiaro che occorre andare oltre. Occorre avere un orizzonte di lungo periodo.



Non hanno dato i frutti sperati il cosiddetto Piano Colao e i successivi Stati generali, in cui il Governo ha incontrato tutti ma sembra abbia ascoltato poco. Ed ecco quindi che l’incontro tra le principali parti sociali del Paese assume ulteriore importanza. Fra un mese o poco più il nostro Paese deve presentare a Bruxelles i progetti su cui impegnare le risorse del Next Generation EU e occorre indirizzare quelle scelte verso soluzioni che favoriscano la crescita del Paese sia in termini di qualità che di produttività. Lo stesso vale per l’utilizzo del Fondo Sure e del Mes; quest’ultimo va inserito tra le necessità del Paese evitando ulteriori approcci ideologici.



A Bruxelles non si aspettano progetti mirabolanti o stratosferici, bensì opere che si possono mettere in cantiere subito e iniziative che si possono avviare concretamente come, ad esempio, la riconversione delle centrali che producono elettricità utilizzando il gas metano e non più il carbone, la costruzione o il revamping di impianti per le fonti energetiche rinnovabili, la ripresa dei lavori delle infrastrutture fermi per posizioni ideologiche, la ricostruzione delle abitazioni nelle zone terremotate bloccata da un’asfissiante burocrazia, ma anche la costruzione di nuove scuole, opere contro il dissesto idrogeologico, lavori di ammodernamento degli acquedotti e dei bacini anche in relazione alla produzione di energia idroelettrica, per non parlare del sistema dei trasporti. Ci vogliono però progetti esecutivi.

Il tema della transizione ecologica deve essere centrale, per dirla in linguaggio europeo deve rappresentare il mainstream dell’insieme delle proposte, perché così vuole il Green Deal europeo e perché questo hanno indicato le molte iniziative della Commissione che si sono susseguite in questi mesi. Il piano Transizione 4.0, ex Industria 4.0, va quindi rilanciato perché i dati ci dicono che ha funzionato e se va aggiornato è chiaro che nuovi indicatori devono essere quelli per lo sviluppo sostenibile di cui, in senso lato, all’Agenda Onu 2030.

Non dimentichiamo però che proprio il Piano Industria 4.0 ha previsto sin dal suo avvio gli incentivi per favorire la contrattazione decentrata ai fini di un aumento della produttività. L’innovazione tecnologica ha bisogno di nuovi modelli organizzativi e questi vanno contrattati sin dall’inizio del processo riorganizzativo con le organizzazioni sindacali a livello d’impresa o territorio, altrimenti non ci si può sorprendere che le cose non funzionino come sembrava sulla carta. Le persone non sono oggetti inanimati, che vanno bene in qualsiasi posto li si mette.

Questo non vale solo per l’industria in senso stretto, bensì l’innovazione deve coinvolgere tutti i settori produttivi, l’agricoltura come il terziario o il turismo o i trasporti. La mancanza di innovazione si è rivelata la causa principale della perdita di competitività delle singole imprese e del sistema in genere.

Ma innovazione si fa partendo dalle persone e qui la questione di un sistema efficiente di politiche attive del lavoro rimane fondamentale per favorire la transizione delle persone, da una competenza a un’altra, da un lavoro a un altro. Se i navigator e il reddito di cittadinanza sono un fallimento rispetto alla creazione di lavoro è altrettanto evidente che inserire delle nuove figure in maniera spot in un sistema che non funzionava (e non ha mai funzionato) non avrebbe risolto nulla.

Ci sembra chiaro che bisogna rilanciare in maniera efficace e trasparente il rapporto tra sistema pubblico e agenzie private riconosciute dalle stesse amministrazioni pubbliche. Non è una questione di supplenza, bensì il modo di favorire l’incontro migliore possibile tra le potenzialità delle persone e le opportunità del mercato del lavoro in un determinato contesto, pianificando interventi formativi di riqualificazione professionale, che facilitino, da un lato il reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro e dall’altro il reperimento delle competenze necessarie alle aziende per ripartire con vigore.

Il lavoro è fondamentale nella vita delle persone. Non si ha la stessa autostima e senso della dignità usufruendo della cassa integrazione o del reddito di cittadinanza o di ultima istanza, invece che della retribuzione di un lavoro regolare. Ci vuole un approccio pragmatico, quello che è bene per le persone è bene pure per il sistema. Formare le persone e accompagnarle durante le transizioni è fondamentale e oggi ancor più necessario oggi dopo il Covid-19.

L’esperienza di massa del telelavoro da casa pone la necessità di rivedere le nostre modalità di lavoro che, in particolare per la Pubblica amministrazione, non si risolve prorogando le scadenze o la validità dei documenti, bensì riorganizzando il sistema e i processi lavorativi sulla base di chiari obiettivi da raggiungere. Ne devono essere consci e responsabili principalmente i dirigenti.

Su tutti questi temi le organizzazioni sindacali e in particolare la Cisl hanno da tempo fatto delle proposte e hanno evidenziato la necessità di un Patto sociale che impegni tutti su obiettivi chiari e che sia di indirizzo anche per i singoli cittadini, che se non comprendono la strada da intraprendere hanno difficoltà a dare un senso al loro impegno e a valutare quello degli altri.

Anche stavolta, com’è avvenuto sempre nel nostro Paese, sono le Parti sociali ad assumersi per prime la responsabilità di indicare le scelte da fare. È nel loro DNA, ma è chiaro che occorre che il mondo della politica si faccia carico di altrettanta responsabilità per delineare un percorso condiviso ed efficace. L’Unione europea ha fatto un salto di qualità per affrontare un’emergenza imprevista, anche il nostro Paese deve fare un salto di qualità per dimostrare di essere degno della fiducia accordataci con le risorse a noi destinate. Potrebbe essere l’ultima fiducia.

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