L’andamento dell’incontro tra la domanda e l’offerta nel mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli di problematicità che non trovano riscontro negli altri Paesi sviluppati. Nel corso della ripresa economica post pandemia, la quota della domanda di lavoro delle imprese che, per diversi motivi, non trova lavoratori disponibili è raddoppiata fino a raggiungere la soglia del 40% sul totale dei profili richiesti.



Come abbiamo cercato di evidenziare in altri articoli, questo andamento è derivante dalla combinazione di fattori diversi legati alla carenza dei percorsi formativi e delle esperienze professionali maturate sul campo, o per la mera indisponibilità delle persone ad accettare le offerte di lavoro che per vari motivi non vengono ritenute idonee. Resta il fatto che tutto questo avviene in coincidenza di un rilevantissimo bacino di persone in età di lavoro inattive o sottoutilizzate. Buona parte delle quali caratterizzate da percorsi di studio non superiori alla scuola media. 



Recuperare i ritardi del sistema scolastico e formativo richiede anni di impegno non solo per adeguare i contenuti dei percorsi di studio, ma per ripensare l’intero approccio culturale in coerenza con l’evoluzione del lavoro e delle organizzazioni del lavoro. Ma buona parte della domanda di lavoro che non trova lavoratori non presenta caratteristiche tali da richiedere percorsi intensi di formazione, ma richiede competenze che potrebbero essere adeguate con percorsi di apprendistato e di formazione breve negli ambiti aziendali. Le associazioni degli imprenditori delle costruzioni, del turismo, della ristorazione, dell’agricoltura, della logistica, denunciano l’impossibilità di reperire manovali, braccianti, camerieri, personale per le cucine, l’accoglienza e le pulizie, barman, camionisti, magazzinieri, bagnini, quantificabile nell’insieme in circa 600 mila lavoratori nell’arco dei prossimi mesi.



Puntualmente è ripartita la polemica sul ruolo negativo e disincentivante per l’accettazione delle offerte di lavoro operato dalla diffusione a maglia larga dei sostegni al reddito a partire da quello di cittadinanza. Accompagnata dal controcanto dei difensori del popolo dei disoccupati che giustificano le rinunce accusando gli imprenditori di non remunerare adeguatamente i lavoratori. Nei tempi recenti si è persino verificata una singolare convergenza di entrambi questi fronti nel richiedere l’ingresso di nuovi immigrati per svolgere i cosiddetti lavori sottopagati che gli italiani non vogliono, o che non devono, fare per questioni di convenienza e di dignità.

Il tema meriterebbe di essere affrontato con serietà e con soluzioni pragmatiche. Nei prossimi mesi sull’aumento dei posti di lavoro nei comparti dei servizi si gioca la tenuta dell’occupazione, dato che, per ragioni del tutto evidenti, le aziende esportatrici dovranno fare i conti con le conseguenze economiche delle tensioni internazionali.

Le polemiche sulla qualità del lavoro e delle remunerazioni nei comparti dei servizi, nel lavoro agricolo, nelle costruzioni e nella logistica, hanno senso fino a un certo punto. La stagionalità, gli orari delle prestazioni sono connaturati con le caratteristiche di questi settori. Le paghe contrattuali riflettono i livelli di produttività che, come noto, non sono particolarmente elevati. La nostra collettività ne beneficia in termini di flessibilità e di contenimento dei prezzi delle prestazioni, ma finge di ignorare che sono il frutto dei sacrifici di qualche milione di lavoratori italiani e stranieri.

La carenza di manodopera disponibile dipende solo dalle remunerazioni inadeguate? Pagare meglio i lavoratori può contribuire a ridurre il fenomeno, ma i riscontri sul campo mettono in evidenza che sono altri fattori, come la discontinuità dei rapporti di lavoro e gli orari disagiati, a rendere meno appetibili le offerte, soprattutto per le giovani generazioni. Nell’ultimo decennio la carenza di manodopera è stata compensata da un incremento del numero degli immigrati e da un aumento delle prestazioni sommerse svolte dai lavoratori formalmente assunti o da quelli reperiti occasionalmente per far fronte ai picchi della domanda. Sulla base delle stime dell’Istat nei comparti citati si annidano i due terzi dei 180 miliardi di redditi e di prestazioni lavorative non dichiarate da parte di lavoratori autonomi e dipendenti.

Nella vulgata corrente il lavoro sommerso tende a essere confuso con i lavoratori poveri e sotto remunerati. Una fattispecie realistica per la specificità dei lavoratori immigrati, ma anche l’occasione per integrare il reddito individuale e familiare per una buona parte dei prestatori che sono poveri solo per il fisco.

Quanto possono influire su queste dinamiche i sostegni al reddito pubblici? Sul piano sostanziale, l’accettazione di offerte di lavoro a termine regolari che comportano la rinuncia all’assegno pubblico non è razionale. Infatti non avviene quasi mai, anche perché la probabilità di sanzionare gli eventuali rifiuti è praticamente inesistente. Mentre diventa del tutto razionale cercare di integrare il sussidio pubblico con le prestazioni lavorative sommerse. In Italia dichiarare i redditi realmente percepiti significa rinunciare alle prestazioni assistenziali (condizione per accedere al Reddito di cittadinanza, all’importo integrale degli assegni unici per i figli e alle varie tipologie di bonus erogati dalle amministrazioni) vanificando di fatto i possibili guadagni derivanti da un lavoro regolare.

Questi mercati del lavoro sono preda di un circuito vizioso. L’abnorme quota di lavoro sommerso finisce per generare un effetto dumping che deprime la crescita dei salari reali. Le basse remunerazioni rendono meno appetibili le nuove offerte di lavoro, spiegando così razionalmente l’esigenza di programmare l’ingresso di nuovi immigrati in presenza di 3,5 milioni di persone in età di lavoro che beneficiano attualmente di sussidi pubblici.

Esiste un modo per interrompere questo circuito? La risposta è affermativa. Basterebbe sincronizzare nei territori la domanda di lavoro con le liste di disponibilità dei beneficiari di sostegni al reddito, rendendo obbligatoria l’accettazione delle offerte di lavoro pena la perdita del sussidio in caso di rinuncia. Si potrebbe garantire la possibilità di beneficiare nuovamente dei sostegni pubblici nel caso di mancata riconferma dei contratti a termine. Le parti sociali interessate, d’intesa con le istituzioni e con i servizi pubblici e privati per l’impiego, potrebbero farsi carico di promuovere le liste nel territorio con programmi di formazione mirati ad accrescere le competenze dei lavoratori in coerenza con i fabbisogni delle imprese veicolando l’utilizzo delle risorse finanziarie delle politiche attive. Tutto ciò potrebbe consentire di ridurre l’uso opportunistico delle prestazioni sociali e di concentrare le attività ispettive verso le imprese che continuano a utilizzare le forme di intermediazione illegale della manodopera.

Cosa impedisce di farlo? L’ipocrisia collettiva che si avvale delle false narrazioni sulla precarietà e sul lavoro povero per continuare a mungere la mucca dello Stato senza turbare i comportamenti opportunistici e le complicità che si annidano nel tessuto sociale.

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