In questi anni, quante volte vi è capitato di partecipare a un convengo e ascoltare un politico o un rappresentante di categoria (sindacale o imprenditoriale) affermare: “In Italia bisognerebbe investire in progetti di politiche attive del lavoro e nella formazione professionale”. Per quanto mi riguarda, ammetto di averne perso il conto. Eppure, proprio in questi ultimi anni, in politiche attive del lavoro si sono spesi tantissimi soldi, in quanto rappresentano la principale voce con cui si possono utilizzare le risorse comunitarie (da Garanzia Giovani, alle politiche regionali del lavoro fino a qualsiasi strumento/progetto volto all’occupazione). In estrema sintesi, grazie al Fondo sociale europeo, i soldi per le politiche attive del lavoro sono stati forniti, ma tali politiche sono state efficaci per la collocazione dei disoccupati?



Onestamente è molto difficile rispondere a questo interrogativo, anche perché manca un quadro valutativo sull’impatto sociale derivante dall’utilizzo di tali strumenti. In via definitiva, sono stati svolti spesso monitoraggi sporadici (più concentrati sul numero dei collocati e meno sull’effettivo impatto) ed è stata fornita una chiara rendicontazione delle spese effettuate. Tuttavia, la natura intrinseca dei progetti, spesso estemporanei, dettati da una durata vincolata al finanziamento comunitario o da meccanismi burocraticamente complessi (tanto da creare professioni dedicate al loro adempimento) e che ha visto le tecnostrutture più interessate alla verifica puntuale degli adempimenti amministrativi che non all’efficacia della misura stessa, mi fanno ipotizzare che le politiche attive in questi anni non abbiano ottenuti grandi risultati.



Il grande difetto della misure implementate, a mio giudizio, non è stato l’aver speso le risorse comunitarie in politiche attive, ma non aver utilizzato le stesse per rafforzare i Centri per l’impiego. Per fare un esempio, possiamo immaginare il fenomeno come la ristrutturazione di una casa, dove si decide di imbiancare senza però intervenire sulle criticità strutturali delle colonne portanti: il risultato è che la casa, prima o poi, crolla. Esattamente quello che è successo nella realizzazione delle politiche attive del lavoro in Italia: una volta terminato il progetto europeo (sempre sperimentale), si è tornati allo status quo dei Centri per l’impiego, senza personale e in molti casi in presenza di funzionari anziani con un lampante problema di digital divide.



Sono consapevole che le risorse comunitarie non possono essere utilizzate per assumere il personale nei Centri per l’impiego, ed è altrettanto vero che in questi anni ho visto realizzare progetti con i Fondi sociali europei “che voi umani non potreste immaginare”. La deroga al loro utilizzo è stata per i Paesi membri, compresa l’Italia, una prassi quasi consolidata, dallo stesso programma Garanzia Giovani alle politiche attive dedicate alla Cassa integrazione in deroga.

Questo ragionamento serve per far comprendere come, ancora oggi, resta intrinseca nel disegno complessivo dei Fondi sociali europei una visione di “ristrutturazione” parziale delle politiche del lavoro in Italia, senza che vada toccata la malandata colonna portante. I Governi Gentiloni prima e Conte I poi, hanno finalmente destinato risorse per il potenziamento dei Centri per l’impiego. Tuttavia, come giustamente aveva a suo tempo segnalato l’allora Presidente Anpal Maurizio Del Conte, manca una corretta definizione del Ccnl dedicato a questa funzione pubblica, perché i Centri pubblici per l’impiego di funzionari amministrativi non se ne fanno assolutamente niente: servono Case Manager, ovvero psicologi con una forte competenza nell’ambito dell’orientamento e accompagnamento al lavoro (ed esperti in social media), che, come avviene in altri Paesi d’Europa, siano formati da percorsi universitari specifici.

Infine, desidero toccare un ultimo argomento, ovvero la formazione professionale, la quale è spesso presentata troppe volte come la “panacea” di tutti i mali. Difatti, dai destinatari del Reddito di cittadinanza, ai partecipanti a Garanzia Giovani sino ai disoccupati di lungo periodo, la formazione professionale risulta essere lo strumento principalmente predisposto per il reinserimento (o primo inserimento) nel mercato del lavoro.

Realizzare un percorso formativo dedicato a un target così complesso e variegato è molto complicato, difatti spesso si finisce per sviluppare corsi generici, in quanto non è tanto la “necessità” dell’utente a essere determinante per la definizione del contenuto del percorso formativo, ma piuttosto la disponibilità dell’offerta formativa degli enti pubblici e privati che gestiscono le politiche attive del lavoro. Anche su questo è necessario che i Fondi Sociali si adeguino: il futuro della formazione professionale si chiama MOOC ed è la formazione e-learning, sempre più digitale e sempre più adatta alle necessità degli utenti. Tuttavia, la complessa burocrazia dei fondi comunitari da una parte, e il digital divide della tecnostruttura dall’altra, potrebbero essere per questa innovazione due pesanti ostacoli, che prima saremo in grado di risolvere, prima i disoccupati potranno contare su una formazione efficace per la loro ricollocazione.