Allora: ha vinto il Pd. Anzi ha perso il Pd. O forse ha solo pareggiato. Perché hanno vinto Salvini-Meloni. I quali invece sono stati sonoramente sconfitti. Da quei Cinque Stelle che però in realtà hanno preso una craniata tale che gli astri osservati sono stati molto più della consueta penta-costellazione. Votare è bello come esercizio di libertà certo. Ma molto di più perché nei giorni successivi chi è dotato di qualche feticistico desiderio di masochismo intellettuale può sbizzarrirsi ad ascoltare, e auscultare, il frenetico farnetichio di politici molto attenti ai sondaggi e poco alla realtà concreta.
Ah, se avessimo governanti e non comunicatori. Se potessimo vantare statisti e non stilisti. Anche perché questi comunicatori-stilisti sono tutto tranne che stiliti. E non si dica che sono lo specchio della nostra società: sono lo specchio di una parte della nostra società. Quanto al fatto se si tratti dei meliores o dei peiores, ognuno se la cavi con la sua coscienza.
Sta di fatto che il Governo ha vissuto col fiato sospeso per una settimana: prova ne sia che se ne odono ancora adesso i rantoli e i tentativi di rianimazione. Se ci passate un giudizio, c’è troppa tattica politica per sperare in un domani diverso. Siamo poco interessati, eufemisticamente dicendo, a capire se stanno insieme fino a primavera o se la prossima spallata salviniana sarà come quelle che, tra 1914 e 1918, sull’Isonzo costarono tante vite ai nostri nonni senza scalfire la resistenza austriaca. Invece vorremmo capire se il benedetto taglio del cuneo fiscale annunciato e messo in bilancio, sarà seguito da altri interventi del genere. Se finalmente invece di spendere soldi solo per mandare in pensione la gente si metteranno a disposizione denari freschi e veri per i tanti pensionati che fin qui hanno retto la baracca delle famiglie italiane, cioè del vero welfare nostrano.
Se siamo pronti a sederci al tavolo multimiliardario imbandito dall’Europa per il New Green Deal, o se come al solito ci faremo fregare dagli altri Paesi, assai più scattisti e scaltri di noi. Eppure lì ci sarebbero, anzi ci sono, i fondi per Taranto, o per il passaggio dalla plastica monouso a quei prodotti perfettamente ecocompatibili di cui l’Italia ha, unica, i brevetti. Lì ci sono i fondi per quella profonda trasformazione in senso ecologico, circolare e innovativo, del sistema manifatturiero da cui dipenderà il futuro della nostra industria. Certo, invece di impostare una battaglia elettorale per difendere la “plastica emiliana”, bisognerebbe aiutare le aziende del settore a orientarsi nel marasma burocratico nostrano e portarle in Belgio a farsi finanziare la riconversione.
Certo occorrerebbe avere delle idee, andare a citofonare Bruxelles invece che a Bologna (allusione non casuale e invece totalmente voluta). Occorrerebbe insomma immaginare l’Italia del 2030 e non quella delle venti e trenta di stasera. Così benissimo hanno fatto i sindacati a ricordare che se il Governo può respirare lo deve fare per realizzare qualcosa, mica per tirare a campare. Certo il nostro idolo, il mitico Giulio Andreotti, sosteneva che era meglio tirare a campare che tirare a morire, ma lui aveva un carisma e una competenza tali che poteva permettersi quel che oggi nessuno può nemmeno immaginare.
E allora? Allora ripetiamo con la Segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, che se il taglio delle tasse da tre miliardi stabilito dal Governo è positivo su questo fronte serve comunque una riforma complessiva che metta in discussione anche Irpef e Iva. Uno Stato fiscale molto più equo aiuterebbe la respirazione di questo Governo, così come lo aiuterebbe una vera lotta all’evasione. A poco serve spostare il tiro, come taluni fanno, dai piccoli ai grandi, dalle partite Iva a Google: basta vedere la reazione trumpiana e le sue minacce, mica tanto velate, di questi giorni, per capire che a Google deve pensarci l’Europa, all’evasore nostrano deve pensarci il Governo locale.
Una riforma complessiva permetterebbe di aprire un confronto a tutto campo sul tema Iva, sulla sua incidenza sul carrello della spesa e sui beni di lusso, come anche a pensare alle tasse su quelle rendite finanziarie che negli anni della crisi hanno reso ricchi i pochi e massacrato i risparmi di una vita di tanti. E poi, se proprio vogliamo lasciar da parte il tema pensioni, ci sarebbero quei 150 tavoli ancora aperti. Come ha detto la Furlan, troppe vertenze “giacciono” esanimi sul tavolo del ministero dello Sviluppo Economico. Sono infatti oltre 150 le crisi che non hanno né sbocco, né percorso. Per non dire che al Governo dovrebbe pur importare, uscendo dai tatticismi, di mettere la testa sulla questione delle infrastrutture.
Certo, direte voi attenti lettori dei non complessi discorsi fatti dai nostri governanti (e pure di quelli degli attuali oppositori), ti riferisci alla questione autostrade e al ritiro della concessione ai Benetton. Ora, premesso che a noi dei Benetton importa il giusto, e che li preferivamo facitori di vestiti piuttosto che gestori di asfalti dalla dubbia connessione, è evidente che ancora una volta da noi si ragiona per slogan e con il fegato, ignari come siamo del valore delle sinapsi. Lasciamo stare le ricadute occupazionali che si avrebbero con l’eventuale revoca delle concessioni autostradali e l’inadeguatezza del sistema infrastrutture del Paese; non focalizziamoci solo sul fatto che chi doveva controllare, chi doveva manutenere, non ha fatto il suo lavoro. Ma se è vero che ci vuole un intervento molto forte di recupero della sicurezza nelle infrastrutture esistenti e nel realizzarne di nuove, che il Sud del nostro Paese non è minimamente collegato non con il Nord ma pure con i Paesi rivieraschi che esso fronteggia, che invece la capacità di esportazione delle merci e di attrazione dei flussi turistici è il suo futuro, allora il tema delle infrastrutture è nodale e molto serio e non può essere continuamente accantonato. Tanto più che sempre a Bruxelles ci sarebbero i soldi e le volontà per una profonda ristrutturazione, per dare finalmente al nostro Meridione quelle autostrade moderne su cui corrono velocissime le connessioni.
Lì dobbiamo andare ad attingere quel che serve per investimenti green che facciano davvero risaltare il meglio della nostra produzione e del benedetto Bel Paese. Per una volta: prima gli italiani sì, ma primi nel senso di essere i primi a correre nella capitale d’Europa a cercare di risolvere i nostri decennali problemi. Consci che l’autarchia ci portò a “visitare” la Russia in inverno con le scarpe di cartone, mentre l’Europa ci ha portato a essere la settima potenza mondiale.