Il lavoro tramite le piattaforme on-line è, certamente, una “nuova” forma di occupazione emergente in diversi paesi europei. È difficile, come sottolineano anche i principali studi in materia, tuttavia misurare, per vari motivi, la dimensione attuale di questo fenomeno. Alcune delle principali ragioni che impediscono questo tipo di analisi sono la mancanza di un’unica definizione di questa nuova modalità lavorativa, il modo “originale” in cui i lavori tramite piattaforma sono frammentati in compiti e il fatto che alcune delle principali piattaforme operino a livello transnazionale.
A titolo esemplificativo, un grande e recente sondaggio europeo copre quasi 39.000 utenti di Internet in 16 Stati membri stima che (fortunatamente) solo l’1,4% dei lavoratori tramite piattaforma abbia questa come occupazione principale, mentre un altro 10% lavori con vari livelli di intensità e frequenza affiancandovi altre attività. Emerge, inoltre, come ci siano ancora differenze considerevoli nell’incidenza di questo fenomeno nei diversi stati europei. Questo a sottolineare come, alla fine, vi sia al fondo una combinazione di tecnologia, fattori economici e socioculturali che influenzano la decisione di una persona nello scegliere di accettare questo tipo di lavoro.
La crescita di questa nuova forma “atipica” di occupazione e i conflitti che ha innescato ne fanno certamente argomento attuale di dibattito pubblico e politico e creano la necessità di provare, per tentativi successivi, a regolamentare e disciplinare qualcosa di sicuramente innovativo, ma che non rientra nelle tradizionali categorie del diritto del lavoro.
Una delle principali complicazioni associate a questo tipo di lavoro tramite piattaforma è, infatti, la contestazione della consolidata classificazione basata sull’antinomia lavoro dipendente/autonomo. Trovare una classificazione è, tuttavia, la questione chiave, in quanto definisce i diritti e i doveri dei lavoratori, ad esempio per quanto riguarda protezione sociale, orario di lavoro, guadagni o rappresentanza. La situazione è, insomma, così contorta che finora nessuno Stato europeo ha approvato regolamenti chiari.
In questo contesto, purtroppo, si inseriscono soggetti che su questa confusione provano a trovare vantaggi economici e non solo. La Procura di Milano, ad esempio, si è attivata per far luce anche sull’aspetto legato al possibile sfruttamento dei lavoratori, attraverso nuove forme di caporalato, in particolare degli stranieri irregolari. Pare infatti essere cattiva pratica in uso quella di cedere il proprio account da rider agli immigrati clandestini, facendosi, addirittura, pagare una quota in denaro, una sorta di tangente, in percentuale sulle consegne effettuate dal lavoratore “sfruttato”.
Il Di Maio neo-ministro del Lavoro volle, simbolicamente, iniziare il suo mandato incontrando i “rider” per mostrare il “cambiamento” in arrivo. La nuova ministra Catalfo potrebbe dimostrare che la svolta c’è stata trovando finalmente una soluzione dignitosa al problema perché il caporalato non è meno grave solo perché 2.0.