La prevalenza delle posizioni populiste sia nella destra che nella sinistra che si contendono la leadership dei rispettivi schieramenti trova in una lettura irrealistica dello stato dell’economia le proprie fondamenta. Da un lato, prevale un populismo liberista per cui basterebbe tagliare le tasse e mettere fine ai troppi controlli introdotti (dall’Europa, dai sindacati, dai sistemi di controllo delle tutele dei cittadini…) per avere un Paese capace di riprendere una crescita senza limiti. Dall’altro, la descrizione è quella di un’economia votata al supersfruttamento dei lavoratori, tutta precarietà e lavori poveri per cui lo Stato dovrebbe garantire un salario sociale e aprire la via alla fine del lavoro salariato.

Anche le Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia sono state piegate alle ideologie di parte e da un lato si è ripresa solo la spinta alla crescita e dall’altro il richiamo al salario minimo. La parte dedicata al percorso auspicato per la crescita del Paese si presta invece a una riflessione più approfondita da parte di chi, per carica politica o sindacale, vuole esercitare un ruolo attivo nei prossimi anni.

La premessa indispensabile è partire dal riconoscimento che la risposta alla crisi dovuta alla pandemia è stata più forte del previsto e che ancora sta aiutando il Paese nel contenimento del rapporto deficit/Pil. La crescita economica ha permesso anche un veloce riassorbimento della disoccupazione e anzi, come confermato dai dati Istat sul mercato del lavoro arrivati poche ore dopo la relazione, si è arrivati a un tasso di occupazione record. L’impatto dell’andamento demografico ha portato inoltre a una crescita più accentuata dell’occupazione femminile e giovanile. Anche per quanto riguarda la forma contrattuale si registra un aumento dei contratti a tempo indeterminato e una diminuzione dei tempi determinati.

Fermarsi a questa lettura può indurre a ottimismo, ma non aiuta a individuare i possibili interventi che servono perché la crescita possa diventare stabile e assicurare uno sviluppo equo. La ragione di questi due obiettivi è dovuta alla constatazione che il reddito pro capite ha segnato negli ultimi decenni una crescita minore rispetto alla media europea dovuta alla bassa crescita della produttività che ha caratterizzato il nostro sistema produttivo. La crescita della produttività negli ultimi 25 anni è stata mediamente dello 0,3% annuo, meno di un terzo dei Paesi europei con cui dobbiamo confrontarci.

Scontiamo in questo caso due deficit di investimenti. Abbiamo investito poco in innovazione tecnologica, per cui le nostre imprese hanno una minore accumulazione di capitale fisso e una minor efficienza dei processi produttivi, e insieme è mancato un investimento nel capitale umano. Il risultato è un andamento dei salari con tassi di crescita lontani da quelli avuti nei Paesi europei più sviluppati.

Questa situazione pregressa fa sì che anche con la crescita attuale il nostro mercato del lavoro abbia al suo interno grandi differenze e ingiustizie. I lavori poveri, con stipendi inferiori al 60% dello stipendio mediano (oggi a 11.600 euro l’anno), sono passati negli ultimi anni dal 25% al 30% degli occupati. In questa fascia stanno i tanti settori che usano contratti part-time imposti, paghe grigie, mancanza di tutele, insomma settori che richiedono interventi sia di vigilanza che controlli, ma anche di essere investiti da processi di modernizzazione. E in questo contesto, “per rispondere ad esigenze di giustizia sociale, in modi definiti con il necessario equilibrio”, una misura di salario minimo può essere un intervento utile.

È partendo da questa constatazione che riguarda l’utilità di mettere in campo tutti gli strumenti utili per sostenere il percorso di crescita che viene tracciata la indicazione di fondo. Serve un disegno organico di interventi che sostenga la crescita della produttività di tutto il nostro sistema economico per sostenere la stabilizzazione e l’aumento del tasso di occupazione e insieme il recupero dei ritardi dei salari, oggi colpiti anche dai processi inflattivi.

Il Pnrr definito dal Governo Draghi contiene un disegno strategico di fondo per sostenere questa linea di sviluppo del Paese nei prossimi anni. Dalla sua realizzazione, a partire dalle riforme di sistema previste, dipende la capacità di avviare una fase di sviluppo capace di correggere alcuni problemi storici che hanno determinato il nostro ritardo nello sviluppo economico degli ultimi anni.

Politica fiscale, politica industriale, scuola, sanità e giustizia, una Pa efficiente, politiche attive del lavoro e formazione duale sono fra i tanti interventi che dovranno essere fatti per sostenere una ripresa che garantisca la rimessa in moto di tutta la società.

Come finalizzare queste riforme. Quanta capacità di coinvolgere i corpi sociali negli interventi che dovranno essere fatti. Accettare la sfida sussidiaria di un coinvolgimento delle forze sociali o puntare a un nuovo centralismo corporativo. Questi saranno i temi di divisione fra diverse visioni che potranno confrontarsi.

La piattaforma disegnata dalla relazione del Governatore non lascia spazio a letture propagandistiche della realtà. Dovrebbe diventare bigino per gli incontri tra Governo e forze sociali per delineare il campo delle discussioni, delle celle e delle assunzioni di responsabilità. Perché la fase che si è aperta indica grandi possibilità per fare un passo avanti nella condivisione di obiettivi per un’economia più giusta solo se si accettano responsabilità comuni e la sfida della partecipazione dei lavoratori ai cambiamenti necessari. Il conflitto per il conflitto diventa invece un danno per tutti.

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