L’avvento dell’Intelligenza artificiale, in particolare delle soluzioni di IA generativa, ha alimentato il dibattito sull’impatto che queste tecnologie avranno sulla produttività nel lavoro. Se da un lato si prevede un miglioramento dell’efficienza, dall’altro lato emergono interrogativi su come questi benefici possano essere distribuiti in modo equo tra tutti i lavoratori.



Secondo un report di Microsoft e LinkedIn, il 75% dei lavoratori della conoscenza utilizza già strumenti di IA sul posto di lavoro, e il 78% di questi impiega soluzioni di IA acquistate autonomamente o tramite versioni gratuite. Questo fenomeno, chiamato “Bring Your Own AI” (BYOAI), rappresenta un’evoluzione del noto “Bring Your Own Device” (BYOD), ovvero l’uso di dispositivi personali per finalità lavorative. Il BYOAI è particolarmente diffuso nelle piccole e medie imprese, con un tasso che raggiunge l’80%, coinvolgendo non solo le generazioni più giovani, ma lavoratori di tutte le età.



Questi dati evidenziano la predisposizione dei lavoratori a sfruttare le potenzialità dell’IA per migliorare la propria produttività, anche in assenza di indicazioni aziendali formali. Tuttavia, molti leader e manager faticano a trasformare l’uso individuale dell’IA in un approccio strutturato a livello aziendale, generando così un divario tra l’iniziativa personale e la strategia organizzativa. Inoltre, molti lavoratori affermano di evitare di rivelare l’utilizzo di questi strumenti per timore di essere percepiti come facilmente sostituibili.

In questo scenario, trasparenza e dialogo aperto sono fondamentali per garantire la sicurezza dei dati aziendali e per creare un ambiente in cui l’uso dell’IA possa davvero contribuire all’incremento della produttività collettiva. Per raggiungere questo obiettivo, è indispensabile adottare un approccio strutturato che non solo incoraggi l’uso sicuro e consapevole dell’IA, ma che preveda anche un investimento mirato nello sviluppo di competenze specifiche. Senza tale impegno, il rischio è quello di ampliare le disuguaglianze tra chi ha potuto sviluppare tali competenze, spesso grazie a risorse personali, e chi non ne ha avuto l’opportunità.



L’Intelligenza artificiale, infatti, può amplificare il divario digitale, aumentando la distanza tra chi dispone di competenze e strumenti tecnologici e chi ne è privo, con il pericolo di escludere questi ultimi dal mercato del lavoro. Senza un approccio integrato e inclusivo, i vantaggi in termini di produttività rischiano di essere vanificati.

È importante, inoltre, chiedersi quale tipo di produttività vogliamo raggiungere. Alcuni studi recenti suggeriscono che l’utilizzo di strumenti di Intelligenza artificiale riduca il divario di performance tra lavoratori altamente qualificati e meno qualificati, migliorando in particolare le prestazioni di questi ultimi. Un esperimento della Harvard Business School ha mostrato che i consulenti meno qualificati, supportati da strumenti di IA, hanno migliorato le loro prestazioni del 43%, mentre quelli più qualificati hanno registrato un aumento del 16,5%.

Effetti simili sono stati osservati anche nel campo della creatività: l’IA ha migliorato l’output di scrittori meno creativi, ma ha avuto un impatto limitato sulla qualità delle storie di scrittori già creativi. Inoltre, le storie generate con l’IA tendevano a essere più omogenee rispetto a quelle create solo da persone. Sebbene l’IA possa stimolare la creatività, rischia di ridurre la diversità complessiva delle idee. Quindi, pur aumentando la produttività, l’IA comporta il rischio di un appiattimento creativo e qualitativo. Per questo, è fondamentale sviluppare competenze non solo legate all’utilizzo degli strumenti di IA, ma anche finalizzate a un loro impiego consapevole e critico.

Infine, Goldman Sachs stima che l’aumento della produttività legata all’utilizzo dell’IA potrebbe avere un impatto sul Pil globale di circa 7.000 miliardi di dollari. Tuttavia, questo progresso potrebbe comportare un “costo” in termini di peggioramento delle condizioni lavorative per molte persone. Con l’aumento della domanda di strumenti di IA, cresce anche la necessità di supporto per attività come l’addestramento degli algoritmi e l’etichettatura dei dataset, compiti spesso affidati a lavoratori di Paesi in via di sviluppo, impiegati in condizioni precarie e sottopagati. Questi lavoratori, spesso definiti “invisibili”, svolgono un ruolo essenziale nel funzionamento di queste tecnologie, ma ne traggono pochissimi benefici.

È quindi fondamentale riflettere su come garantire che i guadagni di produttività derivanti dall’IA siano distribuiti equamente, a beneficio di tutti.

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