Nell’epoca post-pandemica delle grandi dimissioni, della rivoluzione tecnologica, della sostenibilità e della generale insufficienza di competenze, le aziende sono di fatto costrette a rimettere al centro della propria attenzione la persona. Non appena il “capitale umano”, inteso come insieme di risorse umane in certo senso indistinte e interscambiabili, ma la persona nella sua unicità, nella sua esigenza di significato e di soddisfazione non solo economica all’interno del più ampio desiderio di felicità e di utilità per il mondo che riguarda tutta la propria esistenza. In cui la risorsa scarsa, quindi più preziosa, non è più il denaro e il potere, ma il tempo e la qualità della vita. Si tratta di una domanda alla radice autentica esplosa anche per aver sperimentato, nel recente periodo pandemico, la precarietà e la fragilità della vita stessa.
Certo, come accadde in un altro importante periodo rivoluzionario, il ’68 (ma come accade in tanti frangenti della nostra vita quotidiana), la profondità della domanda viene spesso ridotta e quasi soffocata da risposte parziali, ideologiche, ultimamente insoddisfacenti. Ecco allora da una parte il quiet quitting, il silente disimpegno; dall’altra la costante ansia da prestazione, con burnout e great resignation come conseguenze. Due facce della stessa medaglia: in entrambi i casi la domanda di compimento che costituisce la propria umanità non è di fatto giocata nel lavoro, che rimane ambito a cui si è condannati e/o (a volte le due posizioni coesistono) ambito di totalizzante e narcotizzante distrazione da essa.
Dal punto di vista delle aziende spesso i tentativi di risposta si riducono a istruzioni per l’uso, a ricette posticce che non incidono sulla natura del problema e sullo scopo reale della propria attività. Peraltro anche l’avvento dell’Intelligenza artificiale ci impone di mettere continuamente a fuoco lo scopo di quel che facciamo, sia per la novità inedita dello strumento e le sue ripercussioni etiche, che papa Francesco ci ha ricordato nel suo discorso al recente G7, sia per la necessità di interrogarla operativamente in modo appropriato e critico (di qui la nascita della figura del prompt manager) perché l’oceano di dati a disposizione, in aumento esponenziale, venga trasformata in soluzioni significative rispetto alle finalità definite facendo le domande giuste.
Nonostante i fiumi di parole e di inchiostro spesi sul tema del purpose, è un dato di fatto che in azienda si spenda molto tempo a discutere del cosa e del come fare, ma molto poco del perché si fa quel che si fa, spesso dato per scontato. E questa scontatezza impedisce di rimettere in discussione la stessa ragion d’essere dell’impresa, la mission, la vision, le strategie, i processi e l’organizzazione come richiederebbe il cambiamento d’epoca in corso. Con ripercussioni negative sulla capacità di innovazione, sul coinvolgimento creativo dei collaboratori, sul clima aziendale, sull’attrazione e il trattenimento dei talenti e in definitiva sulla competitività e la performance dell’impresa nel medio lungo periodo.
Ma qualsiasi parzialità dei tentativi di risposta non può farci obliterare la natura profondamente positiva della domanda emergente e l’opportunità imperdibile della sfida che pone.
Dalla mia esperienza composita di imprenditore, di docente universitario a contatto con giovani laureandi e di partecipante a un’iniziativa di caritativa riguardante i manager senza lavoro, evinco sinteticamente alcuni elementi, assolutamente incompiuti e da sviluppare, ma che verifico utili all’affronto di tale sfida:
– È necessario un lavoro nel lavoro per recuperare una concezione più vera ed essenziale della dimensione lavorativa: non come mezzo per guadagnarsi il tempo libero, come diceva Aristotele in epoca pre-cristiana, o per affermare il proprio ruolo e potere, ma innanzitutto come occasione di conoscenza di sé, di autocoscienza della persona. Nell’impatto con la concretezza del lavoro, di qualsiasi lavoro, emergono le nostre domande, il nostro reale bisogno, le potenzialità, le attitudini, i limiti, la necessità di relazioni positive, ecc. Tanto è vero che non si può dire di conoscere fino in fondo una persona finché non si è lavorato insieme, anche su una piccola attività. Per questo Don Giussani affermava che “nessuno può stare tranquillo se un amico non ha lavoro”.
– Questa concezione abilita la decisione di giocare fino in fondo dentro il lavoro la propria umanità, fatta di intelligenza ed energia affettiva, fino a farci ricercare un senso adeguato a sostenere non solo la fatica del lavoro, ma l’intera esistenza. E a farci intercettare così esperienze in cui il lavoro è vissuto tentativamente, sempre per approssimazione, all’altezza del desiderio: non come affermazione di sé, ma come servizio creativo e instancabile a far emergere la bellezza e il bene per la persona insito nella realtà. Ultimamente una radice di gratuità, tanto quanto è gratuitamente infinito e indefinibile il desiderio, che porta un piccolo o grande contributo al mondo a partire dalla crescita della persona.
– Si potrebbe dire sinteticamente che una persona può dare tutto nel lavoro se il lavoro non è tutto per lui. Cioè se non dipende totalmente da esso, non è omologato all’ambiente, ma è di fronte a un ideale più grande di sé che dà significato alla vita e al lavoro. Questo lo rende più libero di porre domande, di giocare il talento e di esercitare la propria creatività apportando un contributo originale.
– Un’azienda che ripensi la sua ragion d’essere lasciando spazio a questo orizzonte, per esempio finalizzando la propria attività a un impatto positivo in termini di sostenibilità sociale e ambientale, in cui il profitto è condizione e non il fine dell’operare, ed essendo aperta a contaminazioni ideali esterne, motiva i collaboratori e facilita che essi diano il meglio di sé, con evidenti conseguenze sulla sua competitività. L’esempio del gigante farmaceutico Novo Nordisk, che ha nello statuto il reinvestimento degli utili per l’innovazione e il contesto territoriale in logica ESG ed è contemporaneamente ai vertici delle classifiche di performance aziendale, è stato recentemente portato all’attenzione pubblica dai media. Ma ci sono tante PMI che operano con le stesse logiche di fondo che sono alla portata di tutte le imprese.
– Ovviamente questa posizione non può non iniziare dalla leadership aziendale (azionisti e management) che deve immedesimarsi in questa domanda di senso. È finito il tempo dei leader soli al comando che si pongono come il famoso personaggio di Pulp Fiction: “Sono Wolf e risolvo problemi”. È arrivato quello dei leader che sanno coinvolgere, che vivano il loro ruolo come servizio alla crescita dei collaboratori, dell’azienda e allo stesso tempo del contesto sociale in cui essa opera.
– Sebbene questo accada ancora in varie multinazionali, appare sempre più velleitaria e poco credibile l’azienda che pretendesse di esaurire l’esigenza di senso delle persone al proprio interno, quasi plagiando e orientando il desiderio irriducibile della persona con slogan e valori surrogati dei veri ideali. La persona ha bisogno di essere contaminata ed esposta a esperienze esterne alla propria azienda, per esempio provenienti dal mondo no profit e associativo ma non solo, luoghi educativi de facto che incarnino in modo esemplificativo ideali all’altezza del desiderio.
Tutto questo va educato costantemente sia nell’età scolastica e accademica, sia in tutto il percorso professionale. A tale scopo sono perciò necessari luoghi e relazioni che accompagnino la sfida educativa che affronta l’impresa. Maggiore è il nostro potere nel mondo del lavoro, maggiore è la responsabilità di far vivere e crescere tali luoghi. Che per fortuna esistono: eventi come il Meeting di Rimini ne danno ampia documentazione.
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