Commentare i dati Istat sull’occupazione nel tempo dell’emergenza Covid è come salire su una altalena di sali e scendi legata alle conseguenze economiche di fattori esterni non economici, in buona parte relazionati agli effetti amministrativi dei provvedimenti di distanziamento e ai riflessi psicologici e comportamentali provocati dall’emergenza sanitaria.



La crescita di 6mila occupati nel mese di settembre 2020, rispetto a quello di agosto, segnalata ieri nel bollettino mensile dell’Istat, è il prosieguo del lento recupero iniziato nel mese di luglio con la ripartenza delle attività produttive, dopo la consistente perdita di posti di lavoro, oltre mezzo milione. registrata nel primo semestre dell’anno in corso. Sostanzialmente dovuta alla mancata attivazione dei contratti a tempo determinato e stagionali per i lavoratori dipendenti e dalle altrettanto mancate aperture delle nuove partite Iva per i lavoratori autonomi.



Dell’assenza del turnover hanno beneficiato i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, in relazione al blocco dei licenziamenti, tuttora in corso ber buona parte dei dipendenti privati, e prorogato fino al 31 gennaio 2021 dal recente decreto emanato dal Governo. Alle mancate risoluzioni dei rapporti di lavoro che avvengono in via ordinaria si deve integralmente il recupero degli occupati dipendenti registrato nel trimestre luglio-agosto-settembre rispetto a quello precedente, mentre per la componente dei lavoratori autonomi è proseguita, anche se in modo più attenuato (-10mila), la diminuzione del numero degli occupati. La ripresa delle attività nel terzo trimestre ha consentito anche un rilevante travaso delle persone inattive (-521mila), scoraggiate nel cercare nuove opportunità di lavoro nel periodo del lockdown, verso la quota di quelle in cerca di lavoro (+379mila).



L’insieme di queste tendenze ha consentito di ridimensionare in modo significativo le perdite occupazionali rispetto al mese di settembre 2019 (-387mila), tra i quali -280mila dipendenti con contratto a termine e -107mila autonomi. Nell’insieme le perdite riguardano quasi totalmente le fasce di età under 35, e in grande prevalenza la componente femminile. Il raffronto su base annua al 30 giugno 2020 evidenziava la perdita di oltre 800mila occupati. Numeri che confortavano le previsioni di un ulteriore recupero degli occupati entro la fine dell’anno in corso, pur tenendo conto della spada di Damocle rappresentata dallo sblocco futuro dei licenziamenti. Sostenuti anche dai segnali di ripresa del Pil analogamente evidenziati ieri dall’Istat per il terzo trimestre dell’anno, +16,1%, rispetto a quello precedente.

L’uso del verbo al passato è quanto mai doveroso, dato che stiamo commentando questi numeri in un contesto di parziale ripristino delle misure amministrative per il distanziamento, con la possibilità che le stesse possano essere rese più rigorose come sta accadendo negli altri grandi Paesi europei. C’è il rischio concreto che le conseguenze economiche negative della seconda ondata Covid possano essere persino superiori a quelle della prima, per via degli inevitabili effetti psicologici e dell’ulteriore riduzione del grado di resilienza dei settori più colpiti, in particolare i servizi alberghieri e per la ristorazione, quelli rivolti alle persone e alla gestione delle attività ricreative collettive.

Il richiamo iniziale ai dati in altalena è più che mai fondato. Le previsioni economiche sulla perdita del Pil sono destinate a essere riviste, e i tempi della ripresa economica saranno inevitabilmente più lunghi. Tuttavia dipenderanno anche dalla capacità delle istituzioni di mettere in campo in questo periodo gli interventi anti-ciclici che possono offrire uno scenario favorevole nel medio periodo anche per gli investimenti privati, non limitando l’intervento pubblico alle misure di sostegno al reddito e per la riduzione delle perdite dei fatturati. Allo stato attuale limitati sostanzialmente, alle promesse di aumentare qualche investimento infrastrutturale, agli ecobonus per l’edilizia e per la sostituzione del parco delle automobili, ma palesemente in ritardo negli ambiti della sanità e dell’assistenza che potevano concorrere in diversi modi, ambientali e occupazionali, ad affrontare con più vigore l’emergenza in atto.

Pressoché inevitabile anche una drammatizzazione degli impatti sociali. Tema che meriterebbe esso stesso di essere affrontato con una pluralità di iniziative di politica attiva, con il coinvolgimento delle parti sociali, degli istituti di formazione, degli intermediari della domanda e offerta di lavoro da accompagnare con sussidi al reddito ragionevoli, ma non disincentivanti per la ricerca di nuove opportunità di lavoro.