Tra gli ispettori del lavoro e quelli degli enti previdenziali sembra farsi strada, negli ultimi mesi, una “prospettiva d’azione” che le imprese fruenti di subforniture devono sin d’ora conoscere; anche perché tale “prospettiva” potrebbe riservare loro qualche brutta sorpresa.
Si sa che non tutte le aziende subfornitrici (soprattutto se di limitate dimensioni) brillano per correttezza degli adempimenti. Accanto a tanti operatori onesti, vi sono infatti anche quelli che, dopo pochi mesi dall’inizio dell’attività, cessano di pagare i contributi (ma anche l’Irpef e tutto il resto) e, dopo una o due stagioni di “sopravvivenza”, chiudono i battenti sottraendosi ai creditori. Magari per poi riaprire sotto altra ragione sociale.
Il fenomeno è antico, ma certo, negli ultimi tempi, ha conosciuto un nuovo slancio (sarebbe decisamente sbagliato accusare solo la comunità cinese; ma certo è che essa costituisce uno dei “luoghi” nei quali il fenomeno conosce, potremmo dire, una certa vivacità). Qual è la brillante idea degli Ispettori? Qualificare le subforniture, ai fini delle discipline del lavoro e previdenziali, come veri e propri appalti.
L’impresa tessile ha esternalizzato il taglio o la cucitura, totale o parziale dei prodotti? Ovvero ha terzializzato al subfornitore il lavaggio o la stiratura dei capi? Tutti appalti – secondo la tesi INPS/Ispettorato – di opere o di servizi. La “prospettiva” degli organi di vigilanza, dunque, non è quella di contestare la legittimità e genuinità di tali rapporti, ma, semplicemente, di applicare a essi le norme dettate in via generale per ogni tipo di appalto.
Tali norme (art. 29 del decreto legislativo n. 276 del 2003; art. 1, comma 911, della legge n. 296 del 2007) prevedono che la committente sia solidalmente responsabile con l’appaltatrice (e, quindi, nella “prospettiva” segnalata, con la subfornitrice) per i debiti che su questa gravano per il pagamento dei contributi previdenziali relativi ai propri dipendenti. In parole povere: se quest’ultima non adempie, quelle disposizioni consentono all’ente previdenziale di agire contro la committente, entro due anni dalla cessazione dell’appalto/subfornitura. Allo stesso modo possono procedere i lavoratori, qualora il loro datore di lavoro non abbia soddisfatto i propri crediti.
Detto regime di solidarietà viene inoltre esteso dalla legge anche ai debiti delle imprese subappaltatrici; e dunque, nella “prospettiva” segnalata, anche alle sub-subforniture, e cioè alle ulteriori “aziendine” del cui apporto il subfornitore possa concretamente avvalersi. Né l’impresa committente può in alcun modo liberarsi – se tali norme di legge davvero si applicano – dalla propria responsabilità, che rimane ferma anche quando il prezzo della fornitura è già stato integralmente pagato.
Si può ragionare molto sia sulla correttezza giuridica di tale tesi, sia sui suoi limiti di applicazione. Ma, prima di tutto, bisogna stare alla realtà. Perché se gli ispettori, di fatto, iniziano a sollevare simili contestazioni le pretese – giuste o sbagliate che siano – si tramutano comunque in atti esecutivi, che espongono la committente, tra l’altro, al non certo gradevole intervento dei “riscossori” di Equitalia.
Certamente, l’operazione può essere contestata con le opposizioni in Tribunale: ma si sa che le cause costano sempre, sono spesso lunghe e l’esito non è mai scontato. E allora, forse, è utile conoscere da subito il problema, per risolverlo, per quanto possibile, a monte. Anche perché, in teoria, la committente che suo malgrado ha dovuto pagare può sempre richiedere alla subfornitrice la restituzione degli importi pagati; ma nella pratica, se si tratta di impresa fasulla, ormai “sparita”, che è già riuscita a sottrarsi alle azioni di recupero dell’Inps, la speranza si trasforma in chimera.
Strumenti per tutelarsi le imprese ne hanno: e sono proprio quelli normalmente utilizzati per la gestione dei contratti d’appalto. Innanzitutto, è necessario selezionare solo i subfornitori che offrano garanzie di serietà e solvibilità. L’osservazione non è scontata, perché – non nascondiamoci dietro un dito – la conoscenza che i committenti hanno delle imprese che offrono la subfornitura (soprattutto quelle che operano in monocommittenza, per le quali è più concreto il rischio del quale si discute) è spesso tale da consentire loro di prevedere e valutare concretamente il rischio della loro insolvenza.
Per altro verso, anche le offerte di forniture a prezzi irrisori, rispetto alla “normalità” imposta dalle condizioni di mercato, costituiscono un indizio che sarebbe colpevole ignorare. Ma gli imprenditori dovranno anche “attrezzare” in modo adeguato i contratti di subfornitura, che, come noto (ma come troppo spesso, nella pratica, ci si dimentica), vanno stipulati per iscritto (legge n. 192 del 1998).
Sarà dunque opportuno stipulare patti che riservino alla committente il controllo sulla regolarità degli adempimenti del subfornitore: ad esempio, consentendole di richiedere, prima di pagare il prezzo, il Durc (Documento unico di regolarità contributiva), o di visionare le ricevute di pagamento dei contributi e delle retribuzioni. Si potranno, altresì, prevedere analoghe forme di controllo sulle eventuali sub-subforniture; e le si potrà anche vietare, salva espressa autorizzazione della committente.
Al di là degli strumenti tecnici – che certo, per la loro complessità, non possono essere esaurientemente analizzati in questa sede – si pone dunque, per le aziende, un problema di metodo. Rispettare tutte le discipline in materia di lavoro e previdenza, infatti, è impresa ardua, a causa dell’obiettiva complessità delle normative di riferimento. E tuttavia, come si è appena dimostrato, sbagliare, anche in buona fede, può costare molto caro.
Attrezzarsi con la necessaria, aggiornata competenza, anche in tale difficile settore è, dunque, una delle tante sfide che i nostri imprenditori devono affrontare. Ma anche i pubblici poteri sono chiamati a fare la loro parte. Il sottobosco delle imprese apri-e-chiudi, recentemente infoltitosi in alcuni settori produttivi, e gli effetti che da tale fenomeno derivano – in termini sia di abbassamento dei livelli di tutela dei lavoratori, sia di danno alle casse pubbliche, sia, non ultimo, di concorrenza sleale agli imprenditori onesti che si accollano tutti i (non pochi) costi del lavoro – non si combattono con i blitz moralizzatori degli ispettori, ma con azioni chiare e trasparenti.
Se, quindi, gli ispettorati intendono fare delle subforniture un nuovo campo d’azione, il ministero del Lavoro chiarisca subito se le “prospettive” che a livello locale si stanno sperimentando in occasione di alcuni accessi ispettivi sono sostenibili. E, qualora ritenga di dover dare risposta positiva, fissi da subito, in apposita circolare conoscibile anche dalle aziende, le necessarie coordinate interpretative.
La linea è quella – molto opportunamente segnata dalle recenti riforme, e in particolare dall’attuazione di quella parte della “riforma-Biagi” che interessa le attività di vigilanza (decreto legislativo n. 124 del 2004) – che impone alle strutture amministrative di interpretare e applicare le discipline vigenti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Manifestazioni di “anarchia interpretativa” – quali quelle che, negli anni ‘80 e ‘90, avevano portato gli ispettorati locali ad assumere orientamenti contrastati, a seconda delle regioni o addirittura delle province di appartenenza, su molte e controverse questioni (si pensi ai contenziosi relativi ai lavoratori a domicilio, agli inquadramenti o alla fiscalizzazione degli oneri sociali) – non sono, infatti, più ammissibili.
I più esigenti potrebbero infine chiedere anche un intervento chiarificatore del legislatore. Ma tale richiesta sarebbe forse prematura. E comunque, di questi tempi, i nostri Parlamentari hanno altro a cui pensare.