Il 3 marzo scorso il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva il DDL n. 1167-B, collegato alla manovra finanziaria) che contiene, tra l’altro, al 9 dell’art. 31, alcune disposizioni in materia di arbitrato su cui, in questi giorni, si è sviluppato un acceso dibattito, al punto, sono notizie riportate ieri su un autorevole quotidiano, che il Presidente della Repubblica starebbe valutando l’opportunità di esercitare il potere di rinviare alle Camere la legge, perché sussisterebbero dubbi sulla loro costituzionalità.

Il quotidiano, in realtà, riporta come una valutazione tendenzialmente unitaria opinioni espresse da autorevoli giuristi su profili differenti di disciplina: il che non aiuta la comprensione del problema perché la legittimità costituzionale è sempre puntuale, sulla singola norma. In realtà il nocciolo della questione sta nella possibilità che attraverso un accordo tra le parti (datore di lavoro e lavoratore), stipulabile anche all’atto dell’assunzione, un’eventuale controversia sia sottratta al controllo del giudice per essere decisa da arbitri.

La norma, infatti, consente la risoluzione in via arbitrale delle controversie in materia di lavoro, purché ciò sia previsto da “accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative”: il che non è di per sé una novità sennonché si aggiunge che in mancanza di detti accordi entro un anno dall’entrata in vigore della legge, le “modalità di attuazione e di piena operatività” della disposizione sono definite con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed altresì che quelle clausole devono essere certificate da apposite commissioni previste dal decreto legislativo n. 276 del 2003.

Quello che si paventa, in sostanza, è che in mancanza di accordi collettivi, la debolezza contrattuale del lavoratore lo esponga a “subire” l’arbitrato, imposto dall’imprenditore che si precostituisce in tal modo una via di fuga dalla normativa inderogabile di tutela del lavoratore.

 

Per comprendere la questione, senza entrare in dettagli eccessivamente tecnici, dobbiamo ricordare che l’arbitrato è un istituto che prevede il deferimento a un terzo del potere di decidere come comporre una controversia. Poiché l’arbitro non è un giudice l’istituto deroga alle regole in materia giurisdizionale.

 

Al riguardo la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, «il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, comma primo, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, comma primo, Cost. […], sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa» (C. Cost. n. 127 del 1977; n. 221 del 2005).

 

Se così è non sembra che il lavoratore possa essere “obbligato” a ricorrere all’arbitrato dall’assenza di contrattazione collettiva e ciò per due motivi: da un lato lo stesso decreto è assunto “sentite le parti sociali”, dall’altro l’“effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri la controversia” è, a pena di nullità della clausola compromissoria, soggetta a certificazione, presso commissioni costituite anche da funzionari pubblici, che non possono ritenersi, come pure qualcuno sostiene, “di parte” (imprenditoriale).

 

In tal modo, mentre è salvata quella libertà di scelta richiesta dalla Corte Costituzionale, non sembra che la certificazione possa valere a cristallizzare quella volontà fino al punto da precludere un ricorso in giudizio.