La clamorosa vicenda dei tre lavoratori licenziati di Melfi e le polemiche e i numerosi commenti che ne sono conseguiti, tra cui spicca il duplice intervento del Presidente della Repubblica, suggeriscono qualche riflessione sui fatti realmente accaduti, spesso deformati e utilizzati come pretesto per supportare opzioni di carattere ideologico.
Vi è infatti chi ha imputato alla Fiat di voler utilizzare questo episodio per “spaccare il sindacato” e sfruttare i lavoratori minacciando altrimenti di delocalizzare la produzione al di fuori dell’Italia e chi, sul fronte opposto, ha preso spunto da questa vicenda per sostenere che tutte le garanzie sindacali e le tutele rinvenienti dallo Statuto dei Lavoratori e risalenti al 1970 siano da smantellare tout court in un mondo globalizzato per evitare la deindustrializzazione e il declino del nostro Paese.
È quindi importante tornare anzitutto al fatto reale, e precisamente al testo del Decreto del Tribunale di Melfi del 9 agosto che ha “dichiarato l’antisindacalità dei licenziamenti” intimati ai tre lavoratori di Melfi (due dei quali “delegati” e il terzo mero “iscritto” alla Fiom-Cgil) ordinando la “immediata reintegra dei suddetti lavoratori nel proprio posto di lavoro”.
Nella motivazione il Tribunale ha dichiarato di voler rispondere alle “esigenze di sommarietà e celerità” che caratterizzano il procedimento per repressione della condotta antisindacale promosso dalla Fiom Cgil (ma non dai singoli lavoratori licenziati) che “impone” al Giudice di convocare le parti “entro due giorni” e di decidere rapidamente (caso più unico che raro in un sistema processuale civile che ha tempi di decisione ben più lunghi per qualunque altro tipo di materia) e ha accertato “una condotta censurabile in capo ai lavoratori, sia pur tale da non giustificare” il licenziamento, ritenendo che il “blocco dei carrelli” della catena di montaggio ascritto ai tre lavoratori durante uno sciopero mentre altri lavoratori continuavano a lavorare non si fosse attuato con modalità così gravi e “intenzionali” come contestato dall’Azienda.
Contro tale Decreto sommario l’Azienda ha fatto opposizione, che verrà trattata il prossimo 6 ottobre, e fino a tale decisione la Società ha dichiarato di “reintegrare” i lavoratori corrispondendo la retribuzione e consentendo loro l’accesso ai locali aziendali “al fine di svolgere le nostre prerogative sindacali” (come si legge nella loro lettera al Presidente della Repubblica), senza tuttavia assegnare ai medesimi un’attività lavorativa.
Di qui l’appello dei lavoratori al Capo dello Stato a tutelare la propria “dignità di lavoratori” a “guadagnarci il pane come ogni padre di famiglia e non percepire la retribuzione senza lavorare”; di qui i Comunicati del Presidente della Repubblica che hanno espresso “profondo rammarico per la tensione creatasi”; e di qui i molti commenti anche di blasonati giuslavoristi investiti di cariche parlamentari che hanno ritenuto “indifendibile” il comportamento aziendale.
In realtà, proprio per il peculiare sistema giudiziario italiano, fatto di molte leggi e di molte interpretazioni giudiziali anche discordanti tra loro (l’incertezza del diritto è uno dei tanti problemi dei cittadini in Italia, oltre che un elemento che determina la mancanza di competitività di un Paese rispetto agli altri, come ha ricordato il ministro della Giustizia Alfano proprio al Meeting di Rimini, con conseguenti minori investimenti da parte delle imprese estere), non è detto affatto che la Fiat non abbia correttamente rispettato l’ordine giudiziale di “reintegra”.
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Vi sono state infatti in passato numerose decisioni in cui in casi analoghi i Giudici del Lavoro hanno ritenuto corretta la decisione aziendale di “reintegrare” il lavoratore illegittimamente licenziato corrispondendogli la retribuzione e consentendogli solo “l’ingresso in azienda per l’esercizio dei diritti sindacali” (da sentenze della Corte di Cassazione risalenti alla fine degli anni settanta sino a sentenze rese più di recente per es. dal Tribunale di Latina nel 1997) ed altre decisioni di segno opposto.
Ma rilevato che la questione è oggettivamente controvertibile e contraddetti i giudizi lapidari e inappellabili secondo i quali “la Fiat non sta rispettando le sentenze dello Stato”, è evidente che su tale questione, così come sul merito della causa di licenziamento, non potrà che essere chiamata a dire una parola finale la magistratura, come correttamente osservato dal Presidente Napolitano nel messaggio del 24 agosto.
Quel che vien da chiedersi a partire da questa vicenda così come ricostruita nella sua verità storica è se, al di là delle strumentalizzazioni ideologiche e del gioco delle parti, sia ancora ragionevole e conforme al bene comune, e persino all’interesse reale degli stessi lavoratori, mantenere la “reintegrazione” come obbligo assoluto dell’impresa di fare lavorare sempre e comunque un dipendente non più gradito (nel caso accertato dal Giudice di Melfi per aver compiuto comportamenti “censurabili”, ma anche per semplice incompatibilità o per una libera valutazione) oppure se si può immaginare la possibilità alternativa di cessare il rapporto, come ogni altro contratto (anche il rapporto di lavoro nasce da un contratto) per esempio con un adeguato indennizzo economico, analogamente al sistema previsto per i lavoratori delle imprese con meno di 16 dipendenti.
Si tratta cioè di riflettere se in una Italia (e in un mondo) in cui neppure il matrimonio civile, pur riconosciuto dalla Costituzione, è più indissolubile, e in cui il coniuge che per un dissenso con l’altro può legittimamente separarsi anche in presenza di figli minori e non è ammissibile alcuna sentenza di “reintegrazione presso il tetto coniugale”, è ancora ragionevole che un imprenditore che abbia più di 15 dipendenti (e che non li ha mai sposati) possa essere costretto a tenersi per tutta la vita un lavoratore non più gradito, ad onta di una Costituzione che pur gli riconosce la libertà di iniziativa economica e di tanti concorrenti all’estero (non solo in Serbia o nei Paesi emergenti) che possono licenziare quasi liberamente e con piena libertà possono assumere senza dover ricorrere a contratti a progetto, a termine, a tirocini, a stage, a somministrazioni e ad altre formule utilizzate in migliaia di casi dalle imprese più grandi come alchimie per ritardare per anni l’assunzione definitiva che diventa per l’imprenditore più vincolante di un matrimonio.
Non sarebbe più ragionevole pensare a un indennizzo economico, anche molto consistente (doppio o anche multiplo rispetto a quello previsto per le piccole aziende) in luogo della reintegrazione sempre e comunque, come è possibile in Italia per i dirigenti (e questo è uno dei motivi per il quale i dirigenti in Italia negli ultimi decenni sono cresciuti esponenzialmente di numero)?
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Non sarebbe possibile credere e favorire in tutti i modi che un lavoratore che desidera “guadagnare il pane come ogni padre di famiglia e non percepire la retribuzione senza lavorare” possa trovare, potendo contare su un indennizzo economico adeguato, un’altra occupazione presso altro datore di lavoro in cui possa serenamente e proficuamente collaborare nell’interesse comune mettendo pienamente a frutto il “vincolo fiduciario” che è tradizionalmente alla base del rapporto di lavoro?
Non a caso il ministro Tremonti al Meeting di Rimini, dopo aver affermato che “una certa quantità di diritti e di regole sono lussi che non possiamo più permetterci”, si è domandato il motivo per il quale “nelle imprese dove non c’è la reintegrazione non c’è conflittualità”.
Se si guarda su basi non ideologiche la situazione, appare evidente che il “lavoro forzato” contro la volontà di chi dovrebbe avere interesse a riceverlo (esattamente all’opposto di quanto accadeva due secoli fa nelle piantagioni americane) non funziona e non rispetta la realtà delle cose; e non a caso non esiste nelle piccole imprese italiane, sulle quali nondimeno si fonda in larga parte il nostro sistema economico.
Come ricordava Chesterton “ogni errore è una verità impazzita”. È giusto tutelare il lavoro. Ma la reintegrazione ad ogni costo, anche quando il rapporto si è logorato tanto che un imprenditore sarebbe disposto persino a pagare indennità anche ingenti pur di cessare la “collaborazione” e porre fine alla conflittualità che tra uomini può legittimamente insorgere (a prescindere dai “torti” e dalle “ragioni”) non risponde al bene comune e al desiderio di costruttività che in fondo muove chi lavora e chi fa impresa.
Perché questo rimane il punto. Che il lavoro possa essere sempre di più e per tutti (imprenditori e lavoratori) uno strumento reale di espressione della propria persona in cui si realizzi “quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi” che è il cuore, avendo anche un po’ più libertà di scegliere con chi lavorare per realizzare questo impeto (da una parte e dall’altra) senza essere costretti ope iudicis ai “lavori forzati”.
Per questo sono importantissime le politiche attive per il lavoro, il sostegno all’innovazione e a un sistema formativo libero e sussidiario e tutti gli strumenti tesi al maggiore coinvolgimento dei lavoratori agli utili dell’impresa, come ha più volte auspicato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, da ultimo anche al Meeting di Rimini.
Per questo sono fondamentali le relazioni sindacali in cui, nel rispetto delle parti, si guardi al lavoro nell’impresa con uno spirito di collaborazione e non di ostinata contrapposizione, che porta al male di tutti, anche dei lavoratori, in un confronto “pacato e serio” auspicato e richiesto a tutti i soggetti in gioco dal Presidente della Repubblica.
Per questo anche la dissertazione che precede sul “lavoro forzato” e sull’“oggetto della reintegrazione” dovrebbe diventare una questione di retroguardia in un Paese moderno che metta realmente al centro la persona.