Il Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, pubblicato lo scorso dicembre, nella parte dedicata al welfare ricorda che l’età media di effettivo pensionamento in Italia è di 60,8 anni per gli uomini e 60,7 anni per le donne: ciò significa che, se si eccettua la Francia, nella quale l’età di uscita dal lavoro è pari a 59,4 anni per gli uomini e 59,1 anni per le donne, il nostro Paese è quello che, in Europa, ha la più bassa età di pensionamento effettivo.

Come noto, le condizioni di salute della popolazione, nel corso dei decenni, sono migliorate, portando all’allungamento sia della vita intera, sia della vita attiva. Nel contempo, le esigenze di contenere la spesa previdenziale si sono fatte sempre più pressanti. Per tale ragione, dal 1992 a oggi, pur seguendo un percorso non lineare, il legislatore ha introdotto numerose discipline finalizzate a posticipare l’età di pensionamento. Gli stessi regimi pensionistici dei liberi professionisti hanno modificato in tale direzione le proprie norme regolamentari.

Per i lavoratori dipendenti e per quelli autonomi, l’ultima riforma delle discipline delle età pensionabili è stata attuata con la manovra finanziaria d’estate, e cioè con la legge n. 122 del 2010 (che a sua volta interviene su alcune norme già poste dalla legge n. 102 del 2009), i cui effetti cominciano a farsi sentire proprio in questi giorni.

In realtà, accanto agli effetti immediati dei quali gli aspiranti pensionati si dolgono (con ragione, dal loro punto di vista), se ne realizzano altri, ai quali la stampa ha dato poco o nessun risalto, e che invece interessano soprattutto coloro che, ancora, voglia di andare in pensione proprio non ne hanno. Individuare tali effetti significa scoprire che, in realtà, l’elevazione dei requisiti di pensionamento non sempre si trasforma in un danno per i lavoratori. Al contrario, per coloro che coltivano il desiderio di continuare a realizzare, lavorando, la propria persona e le proprie potenzialità, simili discipline possono rappresentare un vantaggio, in ragione degli effetti che esse determinano in termini di mantenimento della tutela contro i licenziamenti.

Per individuare le ragioni di tale affermazione, partiamo da una brevissima analisi degli effetti immediati delle nuove norme. In primo luogo, la legge n. 122 accelera il processo di adeguamento ai diktat dell’Unione europea delle discipline del pensionamento delle pubbliche dipendenti iscritte all’Inpdap: il requisito anagrafico per il loro pensionamento di vecchiaia, infatti, è elevato, per quest’anno, a 61 anni, mentre al partire dal 2012 si allinea ai 65 anni previsti per gli uomini.

Ma sia tali età, sia quelle previste per il pensionamento di vecchiaia nel settore privato – a tutt’oggi ferme a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini -, sia i più bassi requisiti previsti per i pensionamenti di anzianità, sono, ormai, da considerare dati meramente virtuali. Salvo casi particolari, infatti, chi ha maturato detti requisiti pensionistici a partire dal 1° gennaio di quest’anno subisce, in luogo delle “finestre” previste dalle previgenti discipline, un ritardo nella decorrenza della pensione di ben 12 mesi, se lavoratore dipendente, e di 18 mesi, se lavoratore autonomo.

 

La legge, quindi, formalmente lascia invariate le età di pensionamento; ma è chiaro che, con tale “slittamento”, di fatto l’età di pensionamento di vecchiaia è pari, ormai, a 66 anni per i lavoratori dipendenti e a 61 per le lavoratrici dipendenti del settore privato (per le lavoratrici iscritte all’Inpdap, invece, l’età effettiva sale a 62 anni nel 2011 e a 66 a partire dal 2012). Per i lavoratori autonomi, dette età sono pari a 61 anni e mezzo per gli uomini e 65 anni e mezzo per le donne. Analogo innalzamento di 12 mesi per i lavoratori dipendenti e di 18 mesi per gli autonomi subiscono, poi, le età previste per il pensionamento di anzianità.

 

In questa sede, però, interessa soprattutto cogliere l’effetto “indiretto” che si realizza, a seguito dell’applicazione di tale “slittamento”, sulle pensioni di vecchiaia dei dipendenti. In forza di una complessa disciplina, che fa perno sull’art. 4, legge n. 108 del 1990 (il quadro è più complicato, ma non ci addentriamo), sia le lavoratrici che i lavoratori, una volta che abbiano raggiunto l’età pensionabile prevista per gli uomini, e che risultino in possesso dei requisiti contributivi per accedere alla pensione di vecchiaia, perdono la tutela contro i licenziamenti.

 

A quel punto, infatti, non è più necessario per il datore di lavoro motivare il recesso, allegando una giusta causa o un giustificato motivo. Né il dipendente può invocare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori o altre tutele. In parole povere, da quel momento il datore di lavoro è libero di far cessare il rapporto in ogni istante: perché l’ordinamento, visto che il lavoratore ha ormai la possibilità di percepire la pensione, non ritiene più necessario garantirgli un posto “stabile”.

 

Il passaggio alla libera recedibilità, sino a oggi, ha coinciso, normalmente, con i 65 anni di età del lavoratore (ovviamente accompagnati dal possesso dei requisiti contributivi per la pensione); al massimo, si poteva ipotizzare un ritardo di qualche settimana rispetto al compimento dell’età, per attendere l’apertura di una “finestra”. La legge n. 122 del 2010 impone invece uno “slittamento” alla pensione di un intero anno; mentre nulla dice sugli effetti che tale ritardo può realizzare sulla disciplina del licenziamento. Sulla questione i giuristi si potranno sbizzarrire.

Si potrebbe dire, infatti, che, comunque, le nuove norme lasciano in vigore i “requisiti” per accedere alla pensione, incidendo solo sulla “decorrenza”: e che, quindi, visto che la citata legge n. 108 collega la perdita di tutela al possesso di detti “requisiti”, bisogna ancora far riferimento al “requisito” anagrafico dei 65 anni. È poco probabile, però, che i Giudici del lavoro accedano a tale opzione interpretativa, consentendo che il lavoratore anziano sia liberamente licenziato, per essere poi lasciato, per un intero anno, senza stipendio e senza pensione (peraltro, sembra opporsi a tale ipotesi anche la disposizione, pur malamente formulata, dell’art. 6, comma 2-bis, d.l. n. 248 del 2007, conv. legge n. 31 del 2008).

 

Dunque, abituiamoci a pensare che, per i lavoratori, alla “penalizzazione” del differimento del pensionamento di vecchiaia si accompagna un analogo “vantaggio” sul piano del rapporto, in termini di differimento del periodo di mantenimento della stabilità del posto di lavoro. E che, dunque, le imprese devono stare attente, perché il “libero recesso”, ormai, non si intima prima dei 66 anni di età.

 

Ma non è finita qui. Per il 1° gennaio 2015, infatti, è prevista una piccola, grande rivoluzione. La legge n. 122 del 2010 ha confermato il meccanismo di delegificazione delle discipline dell’età pensionabile, già introdotto dalla legge n. 102 del 2009, destinato ad avere un ambito di applicazione tendenzialmente generalizzato (almeno per ciò che concerne i regimi pensionistici gestiti dagli enti pubblici). Qui, però, non interessa tracciare la “mappa” completa delle tipologie di pensione interessate dalla riforma: ai nostri fini, infatti, basta ricordare che detta disciplina si applicherà anche – salve alcune eccezioni – alle pensioni di vecchiaia, siano esse liquidate con il sistema contributivo o con quello retributivo.

 

L’età pensionabile dei lavoratori dipendenti, dunque, è destinata ad aumentare ulteriormente, rispetto ai 60 e 65 anni già “incrementati” dei 12 mesi oggi previsti. La norma, in proposito, prevede un meccanismo da attuare per mezzo di decreti direttoriali del Ministero dell’economia – da emanare di concerto con il Ministero del lavoro, con cadenza triennale e con anticipo di almeno 12 mesi rispetto alla data di decorrenza di ciascun adeguamento – che dovranno determinare la variazione dell’età di pensionamento, sulla base dei dati Istat, relativi alle variazioni della speranza di vita della popolazione residente in Italia.

Il suddetto meccanismo, in realtà, non dovrebbe portare variazioni di grandissimo rilievo, visto che, in sede di prima applicazione, lo “scatto” in aumento non potrà essere superiore a 3 mesi. E, a quel punto, è prevedibile che, di triennio in triennio, le variazioni del calcolo della speranza di vita non siano di entità eccessiva.

 

È tuttavia ipotizzabile (e, se vogliamo, auspicabile) che, in assenza di variazioni delle discipline legislative, un trend in aumento dell’età pensionabile comunque si realizzi; e che, pertanto, si concretizzi anche una contestuale elevazione della soglia “anagrafica” di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti non motivati. Con corrispondente soddisfazione dei lavoratori che di tale tutela si vorranno giovare.

 

Ma anche con un irrigidimento degli ambiti di azione delle imprese, che se, ad esempio, vorranno accelerare il turn-over o alleggerire gli esuberi “pensionando” più velocemente i lavoratori anziani, dovranno probabilmente incrementare il sistema degli incentivi all’esodo; e che, quindi, alla fine, dovranno spendere un po’ di più.