Fino alla fine del secolo scorso, quello delle cooperative è stato un mondo ai margini del diritto del lavoro e addirittura estranea risultava la figura del socio lavoratore. In effetti, nonostante alcune voci dottrinali dissenzienti, qualche apertura giurisprudenziale e, nei tempi più recenti, legislativa, fino al 2001 la Cassazione era ferma nell’escludere che la prestazione di lavoro resa dal socio alla cooperativa fosse riconducibile al lavoro subordinato. Questa conclusione si fondava su un elemento differenziale da un normale lavoratore subordinato, difficilmente negabile e sintetizzato nella formula del “lavoratore imprenditore di se stesso”, che stava a significare la diversa posizione del socio rispetto alla società, irriducibile a una pura e semplice dipendenza funzionale. Sul piano giuridico, ne conseguiva che l’obbligazione lavorativa si incardinasse direttamente nel contratto sociale, quale suo effetto necessario per la realizzazione dello scopo mutualistico, cosicché risultavano inapplicabili le tutele legali previste per il lavoro subordinato.
Non è dubbio che questa situazione abbia favorito un ricorso indebito allo schema cooperativo per mascherare effettivi rapporti di lavoro subordinato, dando luogo a indegni fenomeni di sfruttamento dei lavoratori, ad alterazioni delle condizioni concorrenziali del mercato e alla negazione stessa della finalità mutualistica, con grave danno per la cooperazione genuina. Almeno in parte, le cose sono cambiate dal 2001 e ancora stanno mutando, con l’approvazione, da parte del Parlamento, della legge 3 aprile 2001, n. 142, che ha organicamente disciplinato la “posizione del socio lavoratore” sulla base del cosiddetto principio del “doppio rapporto”. Infatti, secondo la formula dell’articolo 1, “il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma […], con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali”. Due contratti, dunque, l’uno, quello sociale, di natura associativa, l’altro, quello di lavoro, invece, di scambio, ciascuno con la propria identità, ma tra loro collegati dalla comune finalizzazione allo scopo mutualistico.
Nel caso del socio lavoratore, è a causa di questo collegamento che la disciplina del contratto sociale si riflette, modificandola, su quella del contratto di lavoro, mentre è incerta l’esistenza di un condizionamento in senso contrario. La questione è particolarmente rilevante quando si verifichino situazioni atte a determinare l’esclusione del socio dalla compagine sociale: secondo l’articolo 5, infatti, “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 – ora artt. 2532 e 2533 – del codice civile”.
Il dilemma che la norma pone è se l’esclusione del socio determini automaticamente l’estinzione del rapporto di lavoro ovvero se la cooperativa debba, comunque, dar luogo a un formale atto di licenziamento; ci si chiede, in particolare, se debba comunque sussistere il “giustificato motivo soggettivo”, ossia quel “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”, che l’articolo 3 della legge n. 604 del 1966 richiede perché sia legittimo il licenziamento. Non è, invece, in discussione l’articolo 18, legge n. 300 del 1970 – la famosa reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo – la cui inapplicabilità è sancita espressamente dall’articolo 2, comma 1, legge n. 142 del 1990 “ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. In altri termini, si tratta di capire se il potere di esclusione del socio da parte della cooperativa possa legittimamente esercitarsi anche in presenza di comportamenti del socio attinenti la prestazione di lavoro, ma che, dal punto di vista del diritto del lavoro, non integrano quella ragione giustificativa di licenziamento di cui si è detto. L’articolo 2533 c.c. consente, tra l’altro, l’esclusione: a) nei casi previsti dall’atto costitutivo; b) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico.
Ora, le “gravi inadempienze” riferite alle obbligazioni derivanti dal rapporto mutualistico, sono formula idonea a ricomprendere il “notevole inadempimento” richiesto per il licenziamento; tuttavia, poiché la loro valutazione è effettuata con riguardo all’interesse sociale, non è da escludere che possano rientravi anche comportamenti che non integrano quel requisito. Inoltre, la competenza riconosciuta in materia all’atto costitutivo consentirebbe di dare rilievo a comportamenti che sul piano del rapporto di lavoro configurano soltanto illecito disciplinare.
Vero è che qualche barriera ai poteri della cooperativa è già stata alzata dalla giurisprudenza sia sanzionando con la nullità la clausola statutaria che contempli “ipotesi generiche ed indeterminate”, tali “da consentire un esercizio arbitrario e strumentale della potestà di esclusione, potendo ricomprendere qualunque comportamento del socio e limitare in maniera considerevole il libero esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali dei soci” (Cass. 24 luglio 2007, n. 16390), sia richiedendo, per la legittimità dell’esclusione, l’esistenza di gravi motivi connessi con l’interesse sociale, la cui effettiva sussistenza il giudice è chiamato a verificare (Cass. 25 giugno 2009, n. 14901, e Cass. 10 gennaio 2007, n. 256).
Tuttavia, solo di recente la Cassazione ha avuto modo di esprimersi direttamente sulla specifica questione. Significativo è il caso valutato. A una socia lavoratrice, infatti, venivano contestate la “violazione dello spirito mutualistico e solidaristico della cooperativa”, perché si era rivolta al giudice del lavoro per far valere i suoi diritti, nonché altri comportamenti, risalenti a quattro anni prima, in contrasto con la clausola statutaria comminatrice dell’esclusione al socio che “tenti di svolgere o svolga attività in concorrenza o contrarie agli interessi sociali o in qualunque modo arrechino danni anche morali alla cooperativa o fomenti in seno ad essa dissidi e disordini pregiudizievoli”.
Nel riconoscere l’illegittimità dell’esclusione, la Corte non ha soltanto affermato la sostanziale identità tra l’inadempimento che, ai sensi dell’articolo 2533 c.c., giustifica l’esclusione del socio e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento ex articolo 3, legge n. 604 del 1966, entrambi qualificati in termini di specifica gravità. Ha anche aggiunto che, “incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro, il giudice, nello scrutinare la sussistenza dei relativi presupposti di legittimità, dovrà, comunque, valutare, attraverso un adeguato bilanciamento degli interessi, tanto l’interesse sociale ad un corretto svolgimento del rapporto associativo quanto la tutela e la promozione del lavoro in cui essenzialmente si rispecchia la ‘funzione sociale’ di questa forma di mutualità”.
Dunque, se l’esclusione dalla società determina l’automatica estinzione del rapporto di lavoro, senza che occorra dare luogo a un formale atto di licenziamento, ciò non significa che i limiti posti dalla legge al potere di recesso del datore di lavoro siano irrilevanti, perché devono essere tenuti presenti nel valutare le ragioni dell’esclusione. Un segnale importante per lo sviluppo di una cultura genuinamente cooperativa, che richiederà probabilmente una revisione di comportamenti consolidati in un ambito in cui ancora troppo spesso si verificano situazioni di sfruttamento del lavoro.