Si torna a discutere di modifiche alle discipline dei licenziamenti e, subito, le contrapposte fazioni levano gli scudi, prima ancora di sapere di che cosa si sta parlando. Come si possono superare le barriere ideologiche, per avviare un dialogo costruttivo? In primo luogo, chiedendo a ognuna delle parti di riconoscere la serietà delle ragioni dell’altra. In effetti, nessuno può ignorare quanto sia importante, per i lavoratori, poter fruire di efficaci tutele contro i licenziamenti arbitrari. Spesso, peraltro, si trascura che tale interesse non si esaurisce nell’aspirazione a una ragionevole tranquillità sul futuro proprio e della propria famiglia, ma coinvolge anche quell’effetto di cosiddetta “moltiplicazione delle tutele” che naturalmente si accompagna a una disciplina “forte” sui licenziamenti. Solo il lavoratore efficacemente tutelato dai recessi arbitrari, infatti, ha la forza di reclamare il rispetto di tutti i suoi diritti (giusta retribuzione, sicurezza, libertà di espressione e di attività sindacale nel luogo di lavoro, godimento dei congedi e delle altre tutele a sostegno della famiglia, tanto per citare pochi, ma significativi esempi).
È difficile, dunque, contestare il sindacato, quando fa il proprio lavoro, sottolineando l’importanza che le discipline dei licenziamenti assumono per rendere effettivi i diritti e assicurare dignità della persona che lavora. Da parte loro, però, le imprese possono vantare ragioni non meno valide contro quelli che, semplicisticamente, potremmo definire gli “eccessi di tutela” derivanti dalle discipline vigenti. Il Presidente del Consiglio ha dichiarato all’Europa di voler rendere più facili i licenziamenti per motivi economici. Non è chiaro quale sia il (e se davvero esista un) disegno riformatore; ma ho impressione che, se si pretenderà di riscrivere le discipline che delimitano l’area del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e di quello collettivo per riduzione di personale, come qualcuno già ventila, ogni “rimedio” rischierà di risultare peggiore del male.
Tali discipline, peraltro, già offrono ampi spazi di libertà all’imprenditore che voglia ridurre i posti di lavoro. È vero che esse presentano significativi margini di incertezza applicativa; ma è anche vero che, per ragioni tecniche ben note agli operatori, ogni tentativo di eliminare tali inconvenienti, dovendo incidere sulle cosiddette “clausole generali”, rischierà di accentuarli (peraltro, i problemi in materia di pongono soprattutto per i licenziamenti individuali; per quelli collettivi, infatti, la giurisprudenza è praticamente consolidata nel ritenere insindacabili le scelte dell’impresa: cosicché, se si rispetta la procedura di legge, gli unici veri rischi si corrono se si sbaglia l’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità).
In realtà, la vera nota dolente, sulla quale la legge dovrebbe intervenire, è quella delle conseguenze dell’eventuale declaratoria di illegittimità del licenziamento, imposte dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La norma attribuisce al dipendente la cosiddetta “tutela reale”, e cioè una tutela piena, massima, poiché prevede che, in linea di principio e salvi alcuni temperamenti, il Giudice, quando accerta l’illegittimità del recesso, condanna il datore di lavoro non solo a riammettere l’interessato in azienda (o, in alternativa, a lasciarlo a casa pagandogli ad libitum retribuzione, contributi e danni da demansionamento), ma anche a corrispondergli, immediatamente, tutte le retribuzioni e i contributi maturati tra la data del licenziamento e quella della sentenza.
Per le ragioni sopra dette, è naturale che di tale norma i sindacati facciano una bandiera. E, tuttavia, non si possono neppure disconoscere i danni che essa genera, soprattutto quando la reintegra giunga a distanza di anni, magari con una sentenza di Cassazione, dopo che Tribunale e Corte d’appello avevano dato ragione all’impresa, la quale, a questo punto, si trova normalmente esposta per varie centinaia di migliaia di euro. Insomma, visto dalla parte del datore di lavoro, l’articolo 18 introduce un meccanismo perverso, per il quale più lungo è il processo e maggiori sono i costi collegati al rischio di soccombenza; e ciò, senza che per tali costi sia mai preventivabile un tetto massimo. Tali costi, nei casi (non rari) di reintegra pronunciata a distanza di anni dal licenziamento, per le imprese medio-piccole assumono dimensioni tali da poter imporre loro la chiusura: e quindi la perdita del lavoro non per uno, ma per tutti i dipendenti in essa occupati. Ma, in tali casi, neppure per il lavoratore “reintegrato” la norma – che dovrebbe soccorrerlo nel periodo immediatamente successivo al licenziamento – svolge più la sua originaria funzione; trasformandosi, piuttosto, in una sorta di vincita alla lotteria.
Come eliminare tali distorsioni, tenendo però anche conto delle legittime esigenze dei lavoratori? A mio avviso, un serio dibattito può aprirsi in molte direzioni. Di seguito ne indico alcune. La prima è quella della ridefinizione del campo di applicazione dell’articolo 18. La “tutela reale” si applica oggi nelle unità produttive nelle quali operino oltre 15 dipendenti (5 se si tratta di imprese agricole); ovvero, nelle unità produttive di minor dimensione, gestite da datori di lavoro che occupino, complessivamente, oltre 60 dipendenti. Le realtà che non raggiungono tali dimensioni, dunque, sono già escluse dall’articolo 18, salvo che non si debbano punire comportamenti particolarmente gravi, quali quelli del recesso discriminatorio o per motivi illeciti, o del licenziamento della lavoratrice madre: in questi casi, infatti, si applica comunque la sanzione della reintegra, indipendentemente dal numero degli occupati.
Al di fuori di queste ipotesi, però, essere al di sotto della suindicata soglia occupazionale significa applicare la sola “tutela obbligatoria”, che consente di licenziare senza motivo con costi irrisori: e cioè pagando un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mesi di retribuzione, senza oneri contributivi. La diversità tra le due discipline è tanto profonda da risultare irragionevole: l’una offre una tutela quasi inesistente; l’altra impone un meccanismo talmente forte che, in casi limite, può anche portare l’imprenditore al fallimento. Ma altrettanto irrazionale è il fatto che il datore di lavoro che occupa 15,1 dipendenti (non scandalizzi il decimale: i lavoratori part-time si calcolano per frazioni) debba sopportare esattamente gli stessi rischi e costi di quello che ne occupa migliaia.
La prima proposta sulla quale bisognerebbe discutere, quindi, è quella dell’innalzamento della soglia occupazionale, al di sotto della quale – salvi sempre i casi di licenziamento discriminatorio e le fattispecie di pari gravità – si applichi non l’articolo 18, ma una tutela indennitaria, con costi contenuti entro un tetto massimo. Allo stesso tempo, però, tale indennità dovrà essere più alta di quella oggi prevista per le imprese piccolissime.
Si può, ad esempio, immaginare che l’importo liquidabile possa giungere a 12 mensilità, per i datori di lavoro che occupano sino a 15 dipendenti; ovvero a 24 o 36, se i lavoratori occupati sono, rispettivamente, sino a 30 o a 60. In tal modo, si riconoscerebbero ai lavoratori importi tutt’altro che irrilevanti (e che, nel contempo, si cumulerebbero con i trattamenti di disoccupazione; se c’è reintegrazione, invece, detti trattamenti vanno restituiti all’Inps). Ma significativi sarebbero anche i costi (e il corrispondente effetto dissuasivo) imposti alle imprese; le quali, però, allo stesso tempo non subirebbero più la “spada di Damocle” del meccanismo sopra illustrato. Al di sopra dei 60 dipendenti rimarrebbe, invece, normalmente applicabile l’articolo 18 dello Statuto.
In tale ambito, peraltro, potrebbero introdursi ulteriori temperamenti, ad esempio prevedendo l’applicazione della sola tutela indennitaria per i primi 12 o 24 mesi di durata dei rapporti di lavoro, al fine di incentivare le nuove assunzioni. Nel contempo, però, bisognerebbe “lavorare” anche ad altre misure, capaci di incidere sull’applicazione dell’articolo 18, senza modificarne la disciplina. Mi riferisco alla necessità di accorciare i tempi dei processi, la cui lunghezza oggi rappresenta forse la causa più grave delle distorsioni sopra denunciate. È colpevole il pressoché totale silenzio tenuto dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro su tale grave questione che, invece, dovrebbe vederli alleati. Né l’attuale scarsità delle risorse finanziarie può costituire un alibi per l’inerzia del legislatore: la lentezza della giustizia civile, infatti, costituisce uno dei maggiori disincentivi agli investimenti stranieri; e impone al sistema-Italia costi sicuramente maggiori di quelli che deriverebbero dall’aumento di qualche centinaio di giudici e cancellieri.
Ma – anche a voler lavorare a risorse invariate – alcuni risultati sarebbero comunque raggiungibili, se da subito si inserissero le cause in materia di licenziamenti in corsie preferenziali, che, in tutti i gradi di giudizio (compreso quello di Cassazione), ne consentissero la trattazione in tempi brevi, e con precedenza rispetto a ogni altra controversia che non porti con sé analoghe ragioni di urgenza (cause per differenze retributive, sanzioni disciplinari conservative, risarcimenti danni di non alta entità, ricalcoli delle prestazioni previdenziali già liquidate, ecc.). Gli sforzi che gli Uffici giudiziari già compiono in tale direzione sono apprezzabili, ma, evidentemente, insufficienti, se è vero che esistono casi – dei quali posso riferire per esperienza diretta – di cause nelle quali, dopo due anni dal deposito del ricorso, il Giudice non ha ancora iniziato ad assumere le prove! Ritengo, quindi, che l’introduzione di calendarizzazioni accelerate debba essere imposta con strumenti cogenti, anche di carattere legislativo; peraltro prevedendo espressamente – visto che i giudici, anche i più bravi, non sono Superman – che, nel caso di ruoli già sovraccarichi, le cause meno urgenti possano essere rinviate d’ufficio.
Insomma, gli spazi per intervenire in materia di licenziamenti esistono. Le stesse proposte appena formulate (in gran parte già avanzate da altri, prima di me) possono essere condivise o meno, ma certamente dimostrano come di tali tematiche si possa discutere, considerando seriamente e senza pregiudizi le ragioni di tutte le parti coinvolte. Se così è, un dialogo – magari aspro, serrato, ma vero e, dunque, costruttivo – è tutt’altro che impossibile.