Si discute da tempo dell’opportunità o meno di una modifica della attuale disciplina in materia di licenziamento. In precedenza, mi sono preoccupato di illustrarne sommariamente il contenuto, avendo constatato che molto spesso si esprimono giudizi (in una direzione o nell’altra) senza conoscere quasi nulla di ciò di cui si parla. Aggiungo ora che, per farsi veramente un’idea della posta in gioco, è utile sapere non soltanto cosa prevede la legge in caso di licenziamento, ma anche come funziona il nostro sistema giudiziario. Per evitare di generalizzare, racconto due vicende processuali particolarmente emblematiche.



Le due vicende sono strettamente legate tra loro, avendo riguardato due lavoratori che lavoravano alle dipendenze della stessa azienda e che sono stati entrambi licenziati nel 2004 all’esito della stessa procedura di riduzione di personale. Quindi, i motivi che determinavano la situazione di eccedenza di personale (ovvero la necessità di abbattere in via strutturale il costo del lavoro) e i motivi tecnici organizzativi e produttivi per i quali l’azienda riteneva di non essere in grado di adottare misure idonee a evitare la dichiarazione di mobilità erano esattamente gli stessi.



Dopo aver impugnato in via stragiudiziale il licenziamento (entro il termine di 60 giorni, come prescrive la legge), il primo lavoratore ha proposto ricorso davanti al Tribunale di Milano. La sentenza di primo grado è intervenuta nel 2005, a distanza di un anno dal licenziamento (anche in considerazione del fatto che non è stata ravvisata dal giudice la necessità di svolgere un’attività istruttoria; altrimenti, i tempi sarebbero stati decisamente più lunghi). Ritenendo viziata la procedura di riduzione di personale esperita dall’azienda, il Giudice ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore, dichiarando l’inefficacia del licenziamento e condannando l’azienda a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a pagare le retribuzioni relative al periodo compreso tra la data del licenziamento e la reintegrazione. Peraltro, il lavoratore ha dovuto restituire il trattamento corrisposto dall’Inps a seguito del licenziamento (si trattava in quel caso di uno speciale assegno straordinario previsto a favore dei lavoratori del settore del credito).



Contro la sentenza di primo grado l’azienda ha proposto immediatamente appello, che è stato rigettato dalla Corte di Appello di Milano nel 2008 (a distanza di quattro anni dal licenziamento). Contro la decisione della Corte di Appello di Milano l’azienda ha proposto ricorso davanti alla Corte di Cassazione. Con sentenza del 19 agosto 2011, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso proposto dall’azienda, ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Milano e (sussistendone in quel caso i presupposti) ha deciso la causa nel merito, rigettando definitivamente tutte le domande avanzate dal lavoratore nel ricorso di primo grado.

A distanza di sette anni dal licenziamento, il lavoratore, che nel frattempo era stato reintegrato e aveva percepito tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione, si trova quindi ora nella condizione di dover restituire tutto quanto ha ricevuto dall’azienda a seguito della sentenza di primo grado e dovrà rivolgersi nuovamente all’Inps per chiedere quel trattamento che aveva originariamente percepito a seguito del licenziamento e che aveva dovuto restituire dopo essere stato reintegrato.

È pacifico infatti che dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento e dalla reintegrazione nel posto di lavoro scaturisce l’obbligo per il lavoratore di restituire i trattamenti di carattere assistenziale e/o previdenziale percepiti a seguito del licenziamento (indennità di disoccupazione, indennità di mobilità, trattamento di pensione). Se invece avesse reperito, dopo il licenziamento, una nuova occupazione, il lavoratore avrebbe potuto trattenere quanto percepito per effetto dell’attività prestata alle dipendenze del nuovo datore di lavoro. In questo caso, peraltro, il vecchio datore di lavoro che ha proceduto al licenziamento dichiarato illegittimo, se a conoscenza dell’occupazione reperita medio tempore dal lavoratore, potrà chiedere al giudice di limitare il risarcimento del danno alle differenze retributive tra quanto il lavoratore avrebbe avuto diritto di percepire se non fosse stato licenziato e quanto abbia percepito dopo il licenziamento (fatto salvo il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità).

Il secondo lavoratore, ugualmente licenziato all’esito della medesima procedura di riduzione del personale, ha impugnato in via giudiziale il licenziamento proponendo il ricorso davanti il Tribunale di Latina, ovvero nel luogo dove prestava la propria attività al momento del licenziamento. Anche in questo caso, la sentenza di primo grado è intervenuta nel 2005 (a distanza di un anno dal licenziamento; anche qui, il giudice non ha ravvisato la necessità di svolgere attività istruttoria). Senonché, a differenza del Tribunale di Milano, quello di Latina ha respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo legittimo il licenziamento.

Il lavoratore ha proposto appello davanti alla Corte di Appello di Roma, competente per territorio. Il giudizio di appello si è protratto sino al 2011. A sette anni di distanza dal licenziamento, la Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di Latina, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento, ha reintegrato il lavoratore nel posto di lavoro e ha condannato l’azienda al pagamento di tutte le retribuzioni comprese tra la data del licenziamento e quella della reintegrazione e al versamento dei relativi contributi previdenziali. In sostanza, l’azienda è stata condannata a pagare un importo corrispondente a sette annualità di retribuzione globale di fatto, con interessi e rivalutazione monetaria, e non ha potuto chiedere una riduzione del risarcimento del danno perché il lavoratore, a seguito del licenziamento, aveva chiesto e ottenuto il trattamento pensionistico (che, peraltro, deve ora restituire) e la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l’ammontare delle pensioni percepite dal lavoratore dopo il licenziamento non può essere detratto dal risarcimento del danno derivante dal licenziamento illegittimo.

Dopo la sentenza, il lavoratore ha optato (come spesso accade) per l’indennità sostitutiva della reintegrazione prevista dal quinto comma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; e quindi, in aggiunta alle sette annualità scaturenti dalla sentenza di reintegrazione, il lavoratore ha potuto percepire un importo ulteriore pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

Quindi, i due lavoratori licenziati dalla stessa azienda nell’ambito della medesima procedura di riduzione di personale si trovano oggi, a distanza di sette anni dal licenziamento, su posizioni opposte: il primo deve restituire tutto quello che aveva percepito, avendo definitivamente perso la causa davanti alla Corte di cassazione; il secondo ha invece percepito oggi, a distanza di sette anni dal licenziamento, un importo considerevole, pari a circa cento mensilità di retribuzione globale di fatto.

Peraltro, la vicenda processuale del secondo lavoratore non si è ancora conclusa, avendo l’azienda proposto ricorso per Cassazione. Considerando che la Corte di Cassazione (come abbiamo visto con riferimento alla vicenda processuale del primo lavoratore) si è già pronunziata sulla legittimità della procedura di riduzione del personale esperita dall’azienda, ritenendola legittima anche sotto i profili lamentati dal secondo lavoratore, l’azienda può ragionevolmente confidare nel fatto che anche la vicenda processuale del secondo lavoratore si concluda con il rigetto del ricorso. In questo caso, anche il secondo lavoratore (come già il primo) dovrà restituire tutto quanto ha ricevuto dall’azienda a seguito della sentenza di appello e dovrà rivolgere nuovamente all’Inps per chiedere il trattamento pensionistico che nel frattempo avrà dovuto restituire.

Al di là delle alterne vicende processuali dei nostri due lavoratori, resta il fatto che una causa di impugnazione del licenziamento non si conclude quasi mai prima di sette anni (salvo che una delle parti decida di rinunziare all’impugnazione della sentenza di primo grado o di appello). I tempi tendono a dilatarsi molto quando si rende necessario lo svolgimento di un’attività istruttoria (come accade di frequente in materia di impugnazione del licenziamento). Anche in considerazione della durata del processo, è molto più frequente il caso (che si può verificare anche dopo il deposito della sentenza di primo grado o di appello) in cui le parti addivengono a un accordo su basi esclusivamente economiche; ed è questo il caso della maggior parte dei lavoratori che sono stati licenziati dall’azienda all’esito della medesima procedura di riduzione di personale che ha coinvolto anche i nostri due lavoratori.