Il programma di governo del nuovo Presidente del Consiglio annunciato alle Camere la scorsa settimana e l’intendimento di riformare “le istituzioni del mercato del lavoro” hanno riacceso la discussione sulla riforma della normativa sui licenziamenti, ospitata da alcuni mesi anche su questa testata. Al riguardo molto si è detto circa le conseguenze dei licenziamenti ritenuti illegittimi (radicalmente diverse a seconda che l’azienda occupi più o meno di 15 dipendenti) e circa la durata di un processo fino alla sentenza definitiva di Cassazione (che può oscillare mediamente tra i sei e gli otto anni). Meno invece si è scritto a riguardo dell’incertezza sul piano sostanziale che spesso caratterizza la materia dei recessi.



La legittimità dei licenziamenti è infatti rimessa all’ampia discrezionalità giudiziale con conseguente incertezza ex ante (ma anche in itinere) sull’esito finale dei giudizi; il che si traduce in un oggettivo deficit di competitività del nostro Paese più volte stigmatizzato dagli organismi internazionali, con conseguente disincentivo per le aziende estere a investire in Italia. Di qui l’opportunità di una breve rassegna di alcuni casi di licenziamento (ma ve ne sarebbero molti di più) nei quali la giurisprudenza ha deciso in modo diametralmente contrario fattispecie tra loro del tutto analoghe.



E così, in materia di licenziamento per motivi disciplinari, il Tribunale di Milano, con una recente sentenza (01/06/2011) ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una dipendente di un supermercato per uso anomalo di una “tessera punti”. La lavoratrice addetta alla cassa, in diverse occasioni, aveva accreditato sulla propria tessera i punti relativi ad acquisti effettuati dai clienti, ottenendo così buoni sconto del valore di circa 30 euro. Il Giudice ha ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento in considerazione del “modesto valore” della perdita economica subita dall’azienda e dunque della mancanza di una lesione del vincolo fiduciario tra le parti tale da giustificare l’interruzione del rapporto lavorativo. Al contrario, sempre lo stesso Tribunale di Milano con sentenza del 16/11/2000, decidendo un caso identico, ha ritenuto irrilevante “il tenue valore del danno economico arrecato al datore di lavoro” e ha invece considerato il comportamento del dipendente sufficiente a ledere la fiducia riposta in lui dal datore di lavoro e dunque legittimo il licenziamento.



Ancora, la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che durante un’accesa discussione in una riunione sindacale si era rivolto al proprio superiore gerarchico con l’espressione “delinquente”. Secondo i Giudici, infatti, il contesto particolarmente animoso che caratterizza un’assemblea sindacale non giustificava le frasi ingiuriose del dipendente (Cass. n. 1168/2007). La stessa Corte di Cassazione ha ritenuto invece sproporzionato e dunque illegittimo il licenziamento irrogato al lavoratore che aveva rivolto ingiurie e volgarità a un azionista di riferimento dell’azienda. In questo caso, la Corte ha valutato determinante la situazione di accesa conflittualità che connotava in quel momento le relazioni sindacali, ritenendo non proporzionato il recesso (Cass. n. 23132/2010).

E ancora il Tribunale di Milano ha affermato che non sussistono gli estremi della giusta causa di licenziamento nell’intrattenimento di un rapporto sessuale durante l’orario e sul luogo di lavoro ove, come nel caso di specie, era stata rispettata la regola sociale della “riservatezza” (il luogo, pur facendo parte del complesso aziendale, non era destinato al pubblico, né era di ordinaria frequentazione da parte dei dipendenti) e l’atto non abbia comportato una grave e permanente alterazione dell’organizzazione produttiva tale da compromettere il diritto del datore di lavoro all’utilizzo dei locali aziendali in modo conforme alle proprie funzioni (Tribunale Milano, 14/02/1990). Senonché in altri casi analoghi sono state rese sentenze di segno contrario (per esempio, cfr. Corte App. Roma 14.4.2005).

Anche in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni di carattere tecnico e organizzativo, non mancano sentenze di segno opposto, variabili da Corte a Corte anche in relazione agli orientamenti dei singoli magistrati all’interno degli stessi Collegi giudicanti. E così la Corte di Cassazione ha ritenuto che ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante un giustificato motivo oggettivo di recesso, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ma è sufficiente che le stesse siano soltanto diversamente ripartite e attribuite al personale già occupato, secondo insindacabili scelte datoriali relative a una diversa organizzazione aziendale, senza che detta operazione comporti il venir meno della effettività di tale soppressione (Cass. n. 6245/2005). Al contrario la stessa Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui le mansioni svolte dai lavoratori licenziati non siano state soppresse, ma siano state “semplicemente” ridistribuite tra altri lavoratori (Cass. n. 8515/2000).

E ancora, secondo la sentenza della Cassazione n. 10672 del 2007, le ragioni inerenti all’attività produttiva che giustificano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni quale che ne sia la finalità, e quindi anche per conseguire un risparmio di costi o un incremento dei profitti. In senso contrario si è espressa invece la Corte con sentenza n. 21282/2006, affermando che il licenziamento non può essere determinato da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, essendo necessario procedere alla soppressione del posto o del reparto a cui è addetto il singolo lavoratore non già per un incremento di profitto, ma per fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti (Cass. n. 21282/2006).

Con riferimento poi all’obbligo del datore di verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale prima di procedere a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (il cosiddetto repechage), la Cassazione con sentenza n. 12514/2004 ha stabilito che le “altre mansioni” devono essere equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale nel rispetto dell’art. 2103 c.c. Senonché, con altra sentenza, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che la verifica e la prova dell’impossibilità di reimpiego del lavoratore devono riferirsi non solo a mansioni equivalenti, ma anche a mansioni inferiori nel caso in cui il lavoratore abbia dichiarato la disponibilità alla dequalificazione per evitare il licenziamento (Cass. n. 6552/2009). E si potrebbe continuare.

La ricognizione che precede (che costituisce solo un breve “assaggio”) evidenzia certamente il problema dell’eccessiva – e pur in parte indispensabile – discrezionalità attribuita ai giudici dalla normativa sui licenziamenti e dell’uso talvolta disinvolto da parte di taluni magistrati di tale potere, anche in forza di una sostanziale “immunità” del giudice rispetto alle proprie decisioni denunziata pochi giorni fa dal Presidente Napolitano anche per contrasto con la normativa comunitaria. Ma certamente se si arrivasse finalmente a cancellare quell’unicum al mondo costituito dalla tutela reintegratoria prevista dall’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori, come ormai è ritenuto necessario anche dalle personalità più avvedute della sinistra, l’incertezza connessa ai licenziamenti perderebbe gran parte della sua portata potenzialmente devastante.

Sotto questo ultimo aspetto proprio il discorso programmatico del nuovo Premier alle Camere in cui ha dichiarato che occorre “allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati, mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione” lascia ben sperare in un cambiamento positivo, anche grazie all’auspicato e indispensabile contributo delle compagini parlamentari più responsabili.