“La legge può modificare, peggiorandoli, i requisiti e i criteri di calcolo della mia futura pensione?” La domanda turba periodicamente gli italiani ormai da vent’anni (ricordate il blocco delle pensioni di anzianità e le altre misure introdotte dalla riforma-Amato del ‘92 ?), i quali, di fronte ad ogni nuovo intervento sulle pensioni, lamentano la lesione del proprio “diritto” di ricevere quanto spetterebbe, in base a “tutti i contributi che ho versato”.
In realtà, se si considerano alcune fondamentali regole che presiedono al funzionamento del sistema pensionistico di base (la previdenza integrativa è altra cosa, e in questa sede non ce ne occupiamo), sull’esistenza e sulla portata di tale “diritto” c’è molto da discutere.



Si consideri, in primo luogo, che noi non paghiamo né pagheremo le nostre pensioni.

La previdenza di base, infatti, è gestita con il sistema a ripartizione, in forza del quale le pensioni attuali vengono pagate con i contributi dei lavoratori attualmente in forza. Quindi, i pensionati di oggi sono sostenuti dai lavoratori di oggi; i trattamenti di questi ultimi, a loro volta, saranno finanziati dai lavoratori di domani.



Questo sistema ha consentito di “salvare” il sistema pensionistico nel dopoguerra, quando il valore reale dei trattamenti – sino ad allora finanziati a capitalizzazione, e cioè con i soldi accantonati dagli stessi interessati, in modo simile a quanto oggi praticato per la previdenza integrativa – era stato praticamente annullato dalla svalutazione monetaria.

In tale nuovo sistema, le discipline delle pensioni (e delle assicurazioni sociali in genere) hanno sviluppato meccanismi che solo impropriamente possono essere paragonati a quelli delle assicurazioni private, in quanto non garantiscono la corrispettività tra i contributi versati dal singolo e il valore delle prestazioni dallo stesso ricevute.



I meccanismi assicurativi – sui quali pure, alla fine dell’ ‘800, si iniziò a costruire il sistema previdenziale – risultano, invero, ormai irrimediabilmente snaturati, in ragione delle modalità con le quali si è ritenuto di dover applicare il principio di solidarietà, che è uno dei “mattoni” sui quali si costruisce non solo la previdenza, ma l’intero nostro ordinamento giuridico e sociale.

Dunque, l’affermazione per la quale la mia pensione è stata pagata dai miei contributi è errata, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista giuridico.

Ciò comporta notevoli conseguenze nella valutazione degli interventi che il legislatore attua, per assicurare quell’equilibrio finanziario che – su questo dovremmo essere tutti d’accordo – costituisce condizione essenziale per evitare il default del sistema.

Quell’equilibrio viene meno quando le entrate costituite dai contributi versati dai lavoratori oggi attivi (e/o dai loro datori di lavoro) non coprono le uscite, costituite dalle prestazioni ai colleghi oggi pensionati (che, a loro volta, sono il frutto di “promesse” fatte molto tempo prima).

A quel punto, gli interventi attuabili sono di tre tipi: a) aumento dei contributi a carico delle categorie interessate; b) coinvolgimento di tutta la collettività, attuato aumentando le tasse; c) ridimensionamento (al ribasso) dei livelli delle prestazioni.

Se è vero – ed è vero – che l’imposizione fiscale / contributiva è ormai giunta a livelli quasi insostenibili, e tale comunque da costituire uno dei maggiori freni alla ripresa economica, anche la terza linea di intervento va utilizzata, come, d’altronde, è stato reiteratamente praticato dal legislatore negli ultimi vent’anni.

In occasione delle varie riforme succedutesi in tale periodo, le norme che hanno introdotto criteri di calcolo dei trattamenti e requisiti di accesso (aumento anzianità anagrafiche e contributive) più severi, hanno coinvolto anche lavoratori che avevano già accumulato periodi di contribuzione; i quali, di conseguenza, hanno visto frustrata la speranza di andare in pensione a una certa data, ovvero di ottenere, per i contributi versati, la “redditività” che veniva loro “promessa” dalle regole previgenti.

Ritorniamo così alla domanda iniziale, che può essere riformulata come segue: in tali casi vengono lesi i diritti costituzionalmente protetti dei lavoratori ?

La risposta della giurisprudenza, anche costituzionale, è negativa.

In primo luogo, detta giurisprudenza ha spiegato che, prima della maturazione dei requisiti pensionistici, l’iscritto non può neppure far valere diritti in senso proprio, ma solo aspettative, alle quali va riconosciuto un certo grado di tutela (si veda quanto si ricorderà tra breve), ma che, comunque, non impedisco di “cambiare in corsa”  le regole per il calcolo e l’accesso alla futura pensione.

Ma neppure quando il diritto è ormai maturato la condizione del pensionato può ritenersi “blindata”. La Corte costituzionale ha, infatti, più volte affermato che “nel nostro sistema … non è interdetta, nei limiti della ragionevolezza, l’emanazione di disposizioni che modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti” (cfr. Corte cost. n. 409/1995), cosicché il legislatore può anche, al fine “di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa previdenziale, ridurre trattamento pensionistici già in atto” (Corte cost. n. 446/2002).

Bisogna dire che tale potere non è senza limiti, non potendo esso essere esercitato senza “ragionevolezza”

Per questo, in passato, sono state dichiarate incostituzionali norme che avevano eliminato, con effetto retroattivo, pensioni già conseguite, e che per questo avevano frustrato il “legittimo affidamento di coloro che, in ragione del quadro normativo esistente, hanno optato per il pensionamento” (Corte cost. n. 211/1997), abbandonando definitivamente il lavoro.

Neppure le modifiche ai criteri di calcolo “possono trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino sulla sicurezza pubblica che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello stato di diritto”; ed invero, “non può … ammettersi che detto intervento sia assolutamente discrezionale”, non potendo “dirsi consentita una modificazione che, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando già sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una innegabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore” (Corte cost. n. 822/1988).

In applicazione di tali principi, la Corte ha ad esempio dichiarato illegittimi, perché irrazionali,  alcuni meccanismi distorsivi che si attuavano nel calcolo della pensione retributiva, quando l’interessato vedeva abbassarsi l’importo della pensione, pur a fronte di incrementi dell’anzianità contributiva.

Non appaiono di tale natura gli interventi contenuti nel c.d. decreto salva-Italia, in corso di conversione in Parlamento, il quale, al fine di garantire il riequilibrio dei conti pubblici, provvede, tra l’altro: a differire l’età pensionabile e a introdurre meccanismi di modulazione dell’importo della pensione finalizzati ad incentivare il ritardo nell’accesso al trattamento; a limitare l’adeguamento dei trattamenti già in godimento al tasso di inflazione; ad introdurre peggioramenti nei criteri di calcolo delle pensioni che verranno liquidate in futuro.

 Simili interventi sono già stati in passato adottati dal legislatore, ed hanno superato il vaglio della Corte costituzionale, in forza dei principi sopra ricordati (si veda anche la sentenza n. 247/2010, che, pur chiedendo al legislatore di non eccedere nei propri interventi, al fine di non esporre “il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”, ha comunque fatto salvo l’ennesimo blocco della perequazione delle pensioni, attuato dall’art. 1, co. 19, l. n. 247/2007).

La stessa previsione, contenuta nel suddetto decreto, per la quale a tutti i lavoratori iscritti agli enti previdenziali pubblici si applicherà, d’ora in poi, il sistema di calcolo contributivo – senz’altro meno favorevole (salvi alcuni rari casi) di quello retributivo – risulta in linea con detti principi: l’aspirazione di vedere applicata alla propria futura pensione il più favorevole regime di calcolo sino ad oggi vigente, invero, non è costituzionalmente protetta; e dunque è sacrificabile, in nome dell’esigenza di tutela dei bilanci pubblici.

Peraltro, va anche considerato che il legislatore ha introdotto una importante limitazione a tale modifica peggiorativa, che, pur non imposta dalla Costituzione, normalmente si accompagna a simili interventi, al fine di garantire sufficiente equità.

Si tratta del sistema cosiddetto pro-rata, il quale, per garantire parte delle aspettative degli interessati, “spezza” il futuro trattamento pensionistico in due parti: le anzianità contributive maturate sino a tutto il 2011 daranno diritto ad una quota di pensione ancora calcolata con il più favorevole (in via di principio) sistema retributivo; quelle successive verranno invece sottoposte al calcolo contributivo.

In conclusione, possiamo certamente affermare che il legislatore non è stato “tenero” con i pensionati.

E tuttavia, da quanto emerge dalle considerazioni sopra svolte, è assai difficile censurare tali misure in una prospettiva diversa da quella squisitamente politica.

Sotto il profilo giuridico, infatti, si può affermare che le norme contenute nella manovra – almeno nei suoi assetti complessivi, e salvo quanto potrebbe emergere da un più approfondito esame di singole disposizioni – non solo non ha violato la Costituzione, ma, addirittura, non ha neppure “approfittato” di tutti gli spazi che, secondo i Giudici costituzionali, sono da questa concessi al legislatore.