Il 4 febbraio scorso è stata firmata l’intesa sindacale sul blocco del rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro nel Pubblico Impiego. L’intesa disciplina, in via transitoria, la materia dei compensi variabili dei dipendenti pubblici, in attesa che entri a pieno regime la cosiddetta “Riforma Brunetta”, che ha introdotto un nuovo sistema di incentivazione legato al merito e alla produttività dei lavoratori.



L’accordo del 4 febbraio si segnala per essere l’ultimo di una serie ormai sempre più numerosa di intese sindacali non siglati dalla Cgil (in questo caso “funzione pubblica”) che, anche nel comparto pubblico, è un sindacato di primaria rilevanza. Così, dopo il CCNL “Commercio” del 2008, il CCNL dei “Metalmeccanici” del 2009, l’accordo quadro sul sistema delle relazioni sindacali del 22/01/2009 e gli accordi aziendali Fiat di Pomigliano e di Mirafiori del 2010 per il settore privato, si conferma anche nel “pubblico impiego” la (clamorosa) rottura dell’unità del fronte sindacale, con la sottoscrizione di un accordo da parte di Cisl e Uil (e di altri sindacati “minori”), ma non della Cgil.



Tuttavia, a differenza che nel comparto privato, la rottura dell’unitarietà sindacale nel settore “pubblico” non lascia nell’incertezza giuridica le sorti dei rapporti di lavoro che rientrano nel perimetro di operatività dell’accordo separato; e ciò perché nel “pubblico impiego”, differentemente che nel settore privato, la rappresentatività sindacale, ovvero la “misurazione” della capacità negoziale delle organizzazioni sindacali, è affidata a un sistema di regole precise e trasparenti che rende possibile valutare se un’intesa firmata soltanto da alcuni dei sindacati maggiormente rappresentativi sia valida o meno per tutti gli appartenenti alla categoria.



La disciplina della rappresentatività sindacale nel “pubblico impiego” è, infatti, attualmente contenuta nel D.Lgs. n. 165/2001, secondo il quale è “rappresentativo” il sindacato che raggiunge la percentuale del 5% come media tra il dato associativo e quello elettorale conseguito nelle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (Rsu). In particolare, il dato associativo è desunto dalla percentuale degli iscritti a ciascuna organizzazione sindacale sul totale dei lavoratori iscritti a tutte le organizzazioni nel comparto di riferimento, escludendo quindi i lavoratori “non sindacalizzati”. Il dato associativo va poi rapportato a quello elettorale, calcolato come percentuale dei voti ottenuti da ciascun sindacato nelle elezioni delle Rappresentanze Unitarie rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato. Anche in questo secondo caso, non si fa riferimento alla totalità dei lavoratori, ma solo a coloro che hanno esercitato il diritto di voto nella elezioni di organismi di Rappresentanza Unitaria del personale. Si tratta di un sistema previsto dal Legislatore sulla base di una legge risalente al 1997 e scaturito dal confronto con le maggiori organizzazioni sindacali, compresa la Cgil.

Una volta conseguita la “patente di rappresentatività”, il sindacato acquista la legittimazione a contrattare e la titolarità dei diritti sindacali. Ciò comporta la facoltà di sedere al tavolo delle trattative con la controparte datoriale (in questo caso, l’Aran) e, eventualmente, sottoscrivere una (semplice) ipotesi di accordo. Infatti, per poter firmare definitivamente il contratto che si applicherà a tutti i lavoratori della categoria interessata, l’Aran (ovvero l’Agente negoziale che rappresenta la Pubblica Amministrazione nelle relazioni sindacali) deve effettuare una seconda verifica della rappresentatività: le organizzazioni sindacali che hanno “firmato” l’ipotesi di accordo devono rappresentare nel comparto o area contrattuale almeno il 51% come media del dato associativo e del dato elettorale ovvero, in alternativa, il 60% del solo dato elettorale.

Riassumendo, affinché si possa sottoscrivere efficacemente un contratto collettivo del “pubblico impiego”, i sindacati devono superare un duplice “filtro”: l’essere qualificati come “rappresentativi” e l’avere, nel complesso, la maggior rappresentatività sindacale nel comparto/area di riferimento. Il contratto collettivo stipulato secondo la predetta procedura è applicabile a tutti i lavoratori del comparto, indipendentemente dalla loro eventuale affiliazione a un sindacato dissenziente.

 

Nel settore privato non esiste un simile meccanismo di misurazione della “rappresentatività”, sicché quando un sindacato “rappresentativo” (quale è tipicamente la Cgil) non firma un accordo, resta aperta la questione (e la possibile vertenza) sull’estensibilità di tale accordo (cosiddetto “separato”) ai lavoratori iscritti al sindacato dissenziente; e la soluzione a questa materia è incerta e problematica, al punto che nella stessa azienda il datore di lavoro potrebbe vedersi costretto ad applicare due contratti collettivi diversi al fine di evitare un contenzioso con i lavoratori e con il sindacato: ne è ben consapevole la Fiat, che anche dopo il positivo esito dei referendum deve ancora affrontare alcuni delicati “nodi giuridici” per attuare gli accordi aziendali di Pomigliano e Mirafiori.

 

La mancata sottoscrizione di un contratto collettivo, inoltre, si rivela spesso dannosa anche per il sindacato dissenziente, che così operando mette a rischio la sua stessa presenza (o quantomeno piena rappresentanza) in azienda, poiché l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori (nel testo risultante dopo il referendum del 1995) riserva la facoltà di nominare rappresentanze sindacali soltanto ai sindacati firmatari di contratti applicati nell’azienda.

 

Alla mancanza di regole certe, e alla rottura della tradizionale unità del fronte sindacale con la stipulazione di diversi accordi separati, sono seguiti molteplici esperimenti giuridici e “prove di forza” da parte degli attori sociali per l’affermazione/contestazione dell’applicazione degli accordi separati anche ai lavoratori iscritti al sindacato dissenziente (ovvero la Cgil): dai recenti referendum di Pomigliano e Mirafiori, alla disdetta da parte di Federmeccanica del CCNL 2008, alla creazione da parte di Fiat di nuove Società non iscritte a Confindustria. Si tratta di azioni tortuose e di incerta utilità giuridica, che hanno prodotto nelle aziende una situazione di stallo e di conflittualità che, a ben vedere, non è utile a nessuno se non a coloro che fomentano e ritengono di avvantaggiarsi dello scontro sociale radicale e preconcetto (fortunatamente, si tratta di un’esigua minoranza).

Si pone quindi l’esigenza di disciplinare la (delicatissima) materia della “rappresentanza sindacale” nel comparto privato; esigenza fino a ora accantonata dalle parti sociali perché, fino a pochi anni fa, vi era un fronte sindacale sostanzialmente compatto (costituito da Cgil, Cisl e Uil) che, per prassi consolidata, sottoscriveva unitariamente i contratti collettivi, mantenendo una certa autonomia dalla politica e componendo al proprio interno le divergenze intersindacali. Ma, come appare sempre più evidente, il contesto è radicalmente mutato negli ultimi anni, sia come conseguenza della crisi internazionale e della globalizzazione, che hanno impresso una forte accelerazione al sistema delle relazioni industriali costringendo tutti a misurarsi con la sfida della produttività senza più privilegi e rendite di posizione (il “caso Fiat” è un emblema di questo fenomeno), sia quale “onda lunga” di un imbarbarimento e di una radicalizzazione “bipolare” della politica italiana, che ha avuto l’effetto di “spaccare il sindacato”, condizionandolo ai contrasti politici e determinando il venir meno di una salutare autonomia e unitarietà (o almeno “collegialità”) nell’interesse dei lavoratori, ma, a ben vedere, di tutto il sistema produttivo.

 

Se, infatti, uno “strappo” dalla Cgil (o meglio dalla sua area più estremista e conservatrice rappresentata dalla Fiom di Maurizio Landini) della Cisl e della Uil e di parti importanti del mondo del lavoro anche di sinistra è stato indispensabile per introdurre principi di reale cambiamento nelle relazioni sindacali (che in Italia erano sostanzialmente bloccate dagli anni Settanta) e per iniziare a guardare al lavoro in termini di “collaborazione” e non di “contrapposizione”, è auspicabile che il clima possa presto tornare a rasserenarsi. Le “prove di forza” costituite dai referendum di Pomigliano e Mirafiori, in cui la Cgil ha perso, ma ha dimostrato di avere un seguito tra i lavoratori stimabile attorno al 40%, rendono evidente che c’è bisogno di tutti (anche della Cgil, che ha una storia e una rappresentatività innegabile, che non può certo essere lasciata in balìa di una sua frangia minoritaria estremista e violenta alimentata anche da soggetti estranei al mondo dei lavoratori).

 

Ma per questo occorre che la Cgil (come chiunque perda una competizione democratica) rispetti e non saboti il responso espresso dalla maggioranza dei lavoratori, evitando che le aziende divengano un “ring” condizionato dalla conflittualità e della contrapposizione esasperata che produce effetti negativi per tutti; ed evitando altresì che le tensioni esplose alla Fiat non vengano “esportate” in tante altre aziende, non solo del comparto metalmeccanico, che si dibattono quotidianamente nel primo problema, che è quello di sopravvivere, e che non potrebbero reggere una conflittualità fine a sé stessa: è una questione di responsabilità richiesta anche al sindacato che “perde” e che comunque, anche se non sottoscrive un accordo, non per questo può cessare di essere “rappresentativo” laddove riscuota l’adesione di quote importanti di lavoratori.

 

Per uscire da questa situazione è quindi necessario ricondurre il dibattito attuale, degenerato in un vero e proprio scontro tra le diverse “fazioni” sindacali (e in un’accesa dialettica interna anche all’interno della Cgil), a una discussione aperta sul tema della riforma del sistema delle relazioni sindacali, a partire dall’introduzione di meccanismi di misurazione della rappresentatività degli organismi sindacali del settore privato. La materia della rappresentatività è molto delicata perché, com’è noto, l’articolo 39 della Costituzione prevede una precisa disciplina per garantire l’estensione generalizzata dei contratti collettivi nella categoria di riferimento basata su un peculiare meccanismo di verifica della rappresentatività sindacale. Tale meccanismo, inattuato dal 1948 per l’ostruzionismo dei sindacati, continua a vincolare il Legislatore nell’adozione delle riforme che dovrebbero essere attuate attraverso leggi costituzionali. Su questa materia, già nel maggio del 2008, Cgil, Cisl e Uil hanno approvato un documento unitario per la riforma del sistema delle relazioni sindacali e della rappresentanza, che potrebbe oggi costituire la base di partenza per un rinnovato confronto.

Anche la Fiom, nel 2010, ha depositato in Parlamento un disegno di legge a iniziativa popolare nel quale, come nel pubblico impiego, vengono proposti due “filtri” per la selezione degli attori negoziali: il primo costituito dall’attribuzione della qualifica di “rappresentativo” al sindacato che raggiunge la soglia del 5% come media tra il dato elettorale e quello associativo; il secondo costituito da un referendum a cui dovrebbero essere sottoposti i contratti per avere efficacia nei confronti di tutti i lavoratori: con il rischio, però, di innescare un clima perennemente “referendario” nelle aziende e di tensioni e lacerazioni continue tra sindacati e tra lavoratori, come è accaduto nel “caso Fiat”; il che, a ben vedere, finirebbe anche per “svilire” la stessa funzione di “mediazione” tipica delle organizzazioni sindacali.

 

Nei giorni scorsi è stato anche rilanciato dal Partito democratico il disegno di legge presentato nel 2009 da Pietro Ichino, nel quale la rappresentanza in azienda per ciascun sindacato viene proporzionata al dato elettorale conseguito (con un a soglia minima del 5% dei voti), mentre l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi aziendali a tutti i lavoratori può avvenire a condizione che la coalizione che lo sottoscriva “abbia conseguito la maggioranza dei consensi nell’ultima consultazione in seno alla stessa azienda o unità produttiva per la costituzione della rappresentanza sindacale e […] comprenda almeno una associazione sindacale rappresentata in aziende dislocate in almeno tre regioni diverse”.

 

Quale che sia la soluzione prescelta, è ormai imprescindibile riformare l’attuale assetto delle relazioni sindacali partendo proprio dalla positiva esperienza, ormai decennale, del pubblico impiego, adattata alla particolarità (e complessità) del settore privato. Al riguardo, due principi sembrano irrinunciabili: la rappresentanza/rappresentatività dei sindacati deve essere legata alla media tra dato elettorale e dato associativo; il principio di maggioranza deve costituire condizione necessaria (e sufficiente) per l’estensione dell’efficacia del contratto collettivo a tutti gli appartenenti alla categoria.

 

Ma, chiarite le regole, è necessario che il sindacato che “perde” rispetti responsabilmente e lealmente il responso della maggioranza, come è connaturale a un sistema realmente democratico. E, ancor prima, è necessario aver ben presente che ogni pur doverosa riforma non può supplire alla responsabilità di ciascun soggetto coinvolto (lavoratori, imprenditori, sindacati e politica) nella ricerca del bene comune. Perché, come Giovannino Guareschi fa dire a don Camillo (in Miseria, scritto nel 1953, ovvero in un contesto in cui la conflittualità “bipolare” era più “giustificata” di oggi) “di notte tutti i crumiri sono bigi”, alludendo al celebre episodio in cui, dopo una giornata di sciopero, Peppone e don Camillo si cimentano nottetempo a mungere le mucche, con ciò riconoscendo e servendo un “bene” più grande delle proprie opinioni. Perché se le mucche muoiono, non c’è più latte per nessuno, di destra e di sinistra.