Le incertezze che, nella gestione dei rapporti di lavoro, derivano dal complessa e farraginosa normativa in materia, costituiscono di certo una negatività del sistema-Italia. L’utilizzazione di contratti di lavoro “flessibile”, come, ad esempio, quelli a termine, ovvero l’esternalizzazione di attività mediante ricorso ad appalti, somministrazioni di lavoro o prestazioni professionali autonome o coordinate, può costituire una necessità o quantomeno un’opportunità da non trascurare per rendere competitiva l’impresa. E, tuttavia, il rischio che la legittimità del ricorso a tali tipologie contrattuali venga contestata, e che quindi nascano contenziosi non solo con i lavoratori, ma anche (e soprattutto) con gli enti e le amministrazioni pubbliche competenti in materia di lavoro, previdenza e fisco, è sempre in agguato. Tali contenziosi sono sempre costosi, e, soprattutto, possono portare conseguenze pesanti, di tipo sia economico che organizzativo.

Fermarsi a tali (pur incontestabili) osservazioni, tuttavia, significa compiere un’analisi parziale. Di tale situazione, infatti, anche le imprese hanno la loro parte di responsabilità. E non solo perché molte di esse pretendono di distorcere in modo intollerabile l’uso delle suddette tipologie contrattuali (si chieda a un consulente del lavoro quanto deve faticare per farsi indicare da alcuni datori di lavoro la causale da scrivere nei contratti a termine). Anche le imprese che agiscono in modo corretto (e ve ne sono tantissime) sono, infatti, oltre che vittime, anche un po’ responsabili della descritta situazione: non foss’altro perché, spesso, esse non sono capaci di cogliere tutte le opportunità che la legge mette a loro disposizione, per limitare tali inconvenienti.

Nel 2003, la “riforma Biagi” ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della certificazione, che dovrebbe consentire, se non di eliminare, quanto meno di abbattere in modo significativo i rischi di contenzioso nei casi sopra indicati, e più in generale nei rapporti contrattuali nei quali si deducano, direttamente o indirettamente, prestazioni di lavoro. Tale istituto consente, soprattutto (ma non solo), di prevenire le controversie in materia di qualificazione di tali rapporti: e cioè quei contenziosi che possono sfociare in provvedimenti amministrativi o giudiziari che, ad esempio, “trasformano” collaborazioni coordinate o libero-professionale in rapporti di lavoro subordinato, o contratti di lavoro a termine in contratti a tempo indeterminato; ovvero che “dirottano” i rapporti dei lavoratori assunti dagli appaltatori o dalle agenzie di somministrazione, ponendoli alle dipendenze delle imprese committenti.

Con il procedimento di certificazione, che può essere espletato presso Commissioni di vario genere – ma quella più importante, e che dovrebbe essere sempre facilmente raggiungibile, sta presso la Direzione provinciale del lavoro -, coloro che vogliano stipulare un contratto di lavoro di qualsiasi tipo (subordinato, coordinato, associato, autonomo, libero professionale), o un contratto commerciale nel quale siano comunque dedotte attività lavorative (somministrazione e appalto, ma anche subfornitura, trasporto, engineering,merchandisingfranchising, ecc.), possono chiedere che la qualificazione del rapporto indicata nel contratto stesso, così come le relative clausole, siano rese “stabili”, nei confronti sia delle parti che dei soggetti terziconvenuti nel procedimento. Questi ultimi, normalmente, sono gli enti previdenziali, le stesse Direzioni provinciali del lavoro (e quindi i loro ispettorati), nonché l’Agenzia delle entrate (anch’essa, non di rado, coinvolta nel contenzioso: si pensi, ad esempio, alle ripercussioni determinate sul regime dell’Iva e dell’Irap dalla ri-qualificazione dell’appalto in termini di somministrazione irregolare).

Ma che cosa s’intende per “stabilità”? C’è forse la sicurezza assoluta che non via sia contenzioso, e che comunque la legittimità di quei contratti e delle relative clausole sia incontestabile, anche di fronte a un Giudice? Su tale punto si concentrano le critiche di chi afferma che la certificazione sarebbe inutile, perché i suoi effetti possono essere sempre travolti da una sentenza, così come accade per i contratti non certificati. In realtà, ciò è inevitabile, poiché una norma che affermasse il contrario sarebbe incostituzionale: dunque, non v’è dubbio che il Giudice possa demolire gli effetti della certificazione, se, ad esempio, rileva che la Commissione ha errato nell’applicare i criteri di qualificazione previsti dalla legge, o che, nei fatti, il rapporto si è svolto in modo diverso da come era stato scritto nel contratto certificato. Tuttavia, se ci si ferma a tale rilievo si trascurano, ingiustificatamente, questioni di notevole importanza.

Se, come espressamente dispone la legge, la sentenza è l’unico provvedimento che può travolgere la certificazione, ciò significa che questa determina effetti giuridici e pratici assai rilevanti, che si esplicano, in primo luogo, nei rapporti con i già citati soggetti terzi coinvolti nel provvedimento. Deve, infatti, ritenersi che l’Inps e gli altri enti previdenziali, la Direzione provinciale del lavoro e l’Agenzia delle entrate, pur potendo sempre compiere attività ispettive, non possano adottare provvedimenti in contrasto con la certificazione, se non dopo che sia intervenuta una pronuncia del Giudice.

In parole povere, a differenza di quanto avviene normalmente, la certificazione, se non viene prima travolta da un provvedimento giudiziario (che non si ottiene né facilmente, né in tempi brevissimi), paralizza il potere degli enti pubblici di emanare provvedimenti quali le iscrizioni a ruolo, le ordinanze-ingiunzioni o gli avvisi di accertamento o liquidazione di imposte e sanzioni: e cioè tutti quegli atti dotati di efficacia esecutiva che, quando arrivano gli ispettori, normalmente possono essere notificati nel giro di pochissimi giorni. Si tratta di un beneficio “giuridico” notevole, al quale se ne aggiungono altri, per così dire, “di fatto”, che finiscono per essere non meno rilevanti: basti rilevare che, con la direttiva 18 settembre 2008, il ministero del Lavoro ha espressamente invitato i propri ispettorati e quelli degli enti previdenziali ad astenersi dal compiere verifiche sui contratti certificati, salvi i soli casi di comprovata necessità.

Ma anche nei confronti delle stesse parti contraenti la certificazione è suscettibile di realizzare importanti effetti pratici. Come rilevato dagli osservatori più attenti, infatti, essa è in grado di esercitare una sorta disoft power, idoneo a incidere sulla propensione degli interessati a rimettere in discussione il rapporto: è cioè ragionevole prevedere che, per i contratti certificati, i lavoratori propongano solo contenziosi per i quali vi siano serie probabilità di vittoria.

Quando poi, nonostante tutto, comunque la lite giudiziaria vi sia, la certificazione è suscettibile di costituire un importante strumento di persuasione anche nei confronti del Giudice: il quale sarà sempre e comunque libero di verificare se l’imprenditore ha cercato di “fare il furbo”; ma che, nell’esercizio degli ampi poteri discrezionali concessigli, in materia, dalla legge, dovrebbe comunque essere portato a “fidarsi” della volontà delle parti, assai più che nel caso di contratto non certificato, posto che quella volontà è stata già sottoposta al vaglio e all’assistenza delle Commissioni di certificazione.

In definitiva, dunque, con i contratti certificati si potrà sempre andare in causa, ma le possibilità che ciò non avvenga, ovvero che la causa si perda, saranno minori. Né può trascurarsi il fatto che, in molti casi, anche perdere il contenzioso, in presenza di un contratto certificato, può risultare meno costoso di quanto non succeda negli altri casi: se, ad esempio, gli effetti della certificazione sono stati annullati dal Giudice per un errore di diritto compiuto dalla Commissione, vi saranno buone chance per evitare comunque l’irrogazione delle sanzioni amministrative e di quelle penali (qualora previste, come nel caso dell’appalto illegittimo), per insussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.

E infine, non si trascurino le utilità che alla “verifica preventiva” di legittimità realizzata con la certificazione possono derivare, addirittura nel caso di datore di lavoro pubblico. Può, ad esempio, il pubblico amministratore essere censurato dalla Corte dei conti, qualora il ricorso a rapporti di lavoro “flessibile” era stato, ab origine, legittimato da un provvedimento di certificazione, poi dichiarato semplicemente errato dal Giudice?

Certamente, queste poche note non forniscono un quadro esauriente dei contenuti della disciplina della certificazione e delle sue potenzialità, peraltro recentemente ampliate dal “collegato lavoro”, che ha, ad esempio, consentito di inserire, nei contratti certificati, clausole compromissorie o di specificazione delle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento; e che, nel contempo, ha consentito di certificare contratti già in esecuzione e accordi conciliativi. Sembra, però, che le poche indicazioni qui fornite dimostrino come l’istituto sia meritevole di un’attenzione ben maggiore di quella (praticamente nulla) sino a oggi riservatagli dai datori di lavoro.

È vero che anche il sindacato – che pure sarebbe abilitato a gestire le certificazioni, mediante gli enti bilaterali – è sinora anch’esso rimasto immobile, soprattutto a causa dell’aperta opposizione, tutta ideologica, della Ccgil. Ma è anche vero che, se vuole, il datore di lavoro può fare a meno del sindacato, rivolgendosi, come già detto, alle Direzioni provinciali del lavoro. E se ciò avvenisse, forse anche le associazioni sindacali, per evitare di essere “tagliate fuori”, potrebbero rivedere la propria posizione e iniziare a contribuire – come sarebbe auspicabile – a valorizzare uno strumento che certamente non è la panacea di tutti i mali, ma che, comunque, potrebbe contribuire a deflazionare il contenzioso giudiziario del lavoro e a rendere più moderno e competitivo il sistema-Italia.