Mentre il tema del lavoro è ormai monopolizzato dall’ennesimo capitolo del “caso Fiat” (la Fiom di Landini ha presentato un ricorso giudiziale contro gli accordi “separati” degli stabilimenti di Pomigliano e di Mirafiori e si sta infiammando anche la vertenza sullo stabilimento ex Bertone di Grugliasco), si è sorprendentemente riaperto il dibattito bi-partisan sui temi dell’occupazione e del “precariato”, ripreso nei giorni scorsi anche dal Vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola, su queste pagine.

La scorsa settimana, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, si è intrattenuto sui temi dell’occupazione giovanile ritenendo preferibile “un contratto di lavoro unico che preveda la possibilità di un rapporto a tempo indeterminato, piuttosto che l’attuale sistema fondato su un’eccessiva flessibilità e incertezza contrattuale”. “Ciò non toglie ha aggiunto che è giusto garantire la possibilità ai datori di lavoro di licenziare”.

Inizialmente, le dichiarazioni di Fini avevano fatto pensare a un rilancio bi-partisan della proposta di legge presentata dal professor Ichino, eletto al Senato nelle fila del Pd. In realtà, secondo quanto precisato dal suo portavoce, il Presidente della Camera ha inteso far riferimento alla proposta di legge di Futuro e Libertà presentata lo scorso 7 aprile alla Camera, che prevede l’adozione per i neoassunti di un contratto unico a tempo indeterminato al posto della “giungla dei contratti atipici e precari”, accompagnato da “una maggiore flessibilità in uscita, compensata da un indennizzo crescente per chi perde il lavoro pari a tante mensilità quanti sono gli anni di servizio in azienda e da “robuste e universali misure di sostegno al reddito per i disoccupati”.

In ogni caso, la proposta di legge di Fli è sulla scia di quella presentata dal Sen. Ichino con due distinti disegni di legge: il n. 1481/2009 a carattere sperimentale e il n. 1872/2009 in forma di disciplina generale, applicabile a tutte le imprese per i rapporti di nuova costituzione; e presenta altresì vari profili di analogia con altri disegni di legge presentati in Parlamento negli ultimi due anni da altri esponenti dell’opposizione (si veda, per esempio, il progetto di legge n. 2630/2009 presentato da Madia, Miglioli, Gatti e il disegno di legge n. 2000/2010 a firma Nerozzi, modellato sul progetto Boeri-Garibaldi).

Tali proposte di riforma hanno in comune l’introduzione di un nuovo concetto di subordinazione, intesa quale “dipendenza economica”, e la riconduzione delle molteplici tipologie di lavoro a un unico contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con applicazione di tutele proporzionalmente graduate all’anzianità lavorativa.

Nei diversi progetti di legge, la nozione di “dipendenza economica” determina la più favorevole normativa protettiva in materia di lavoro, attribuita al contratto unico a tempo indeterminato. Secondo tali proposte, per “dipendenza economica” si deve intendere la posizione del collaboratore che trae dal singolo rapporto più di due terzi del proprio reddito complessivo di lavoro, salvo che il reddito stesso superi i 40.000 euro annui, oppure che il lavoratore sia iscritto a un Albo od ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza. In tal modo la soglia dei 40.000 euro annui costituirebbe di fatto il nuovo criterio distintivo dei contratti subordinati e autonomi.

Nel progetto di riforma del Sen. Ichino si rinvengono anche interessanti innovazioni riguardanti la disciplina del licenziamento. In particolare, il recesso intimato dalle aziende per motivi economici dovrebbe essere sottratto al controllo giudiziale in ordine alla congruità dei motivi che lo hanno determinato e dovrebbe essere seguito, in ogni caso, dall’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al dipendente licenziato “un’indennità pari a tanti dodicesimi della retribuzione lorda complessivamente goduta nell’ultimo anno di lavoro, quanti sono gli anni compiuti di anzianità di servizio in azienda”. Inoltre, sarebbe a carico dell’impresa anche il trattamento di disoccupazione a integrazione del trattamento base erogato dall’Inps, fino al 90% dell’ultima retribuzione percepita per il primo anno, progressivamente decrescente sino al 70% per il terzo anno di eventuale disoccupazione.

Tale trattamento si dovrebbe comunque inserire in un contratto di ricollocazione tra il datore di lavoro e il dipendente licenziato, nel quale dovrebbe essere anche prevista “l’erogazione di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, nonché la predisposizione di iniziative di formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore. Si tratta di una forma interessante di corresponsabilizzazione attiva del datore di lavoro al reperimento di altra occupazione del proprio dipendente licenziato per motivi organizzativi.

Il progetto di legge del Sen. Ichino fa salvi i contratti con contenuto formativo (stage e apprendistato) e i contratti a termine per le sostituzioni temporali e stagionali. Al riguardo, le parti sociali, compresa la Cgil, hanno sottoscritto con il Governo e le Regioni lo scorso 27 ottobre un importante accordo per il rilancio dell’apprendistato che, come ha recentemente osservato anche il prof. Tiraboschi, costituisce uno strumento imprescindibile di formazione e di inserimento lavorativo dei giovani, che interessa attualmente circa 600mila lavoratori. Si tratta di un accordo che individua nella formazione, nelle competenze e nell’integrazione tra scuola e lavoro le vere leve della stabilità occupazionale dei giovani.

L’esigenza di una profonda riforma del sistema è avvertita anche dal Ministro Sacconi, che ha annunciato un disegno di legge delega per l’introduzione di uno “Statuto del Lavori”, già presentato in bozza alle parti sociali lo scorso 11 novembre. Gli obiettivi che l’annunciata legge-delega intende perseguire (completando quanto già attuato con il “Collegato lavoro” approvato lo scorso 4 novembre) sono la razionalizzazione e semplificazione delle regole in materia contrattuale e amministrativa; l’identificazione di un nucleo di diritti universali e indisponibili di rilevanza costituzionale e coerenti con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea applicabili a tutti i rapporti di lavoro subordinato e alle collaborazioni autonome rese in regime di sostanziale mono-committenza; il conferimento alla contrattazione collettiva della possibilità di modulare il regime di tutele anche in deroga alle norme di legge, nei limiti e nell’ambito di applicazione di ciascun contratto collettivo.

Si tratta certamente di una riforma importante e condivisibile, che tende a muoversi sul terreno della valorizzazione delle persone e della sussidiarietà, anche se un sistema flessibile di tutele affidato alla contrattazione collettiva dovrà fare i conti con l’assenza di regole certe in materia di rappresentatività sindacale e di efficacia soggettiva dei contratti collettivi di lavoro, e prima ancora, con una conflittualità sindacale di cui – ancora una volta – il “caso Fiat” è oggi l’emblema.

È quindi auspicabile che il rinnovato dibattito che si è riaperto su temi concreti del lavoro possa proseguire, e che il Governo sappia mettere a frutto e valorizzare gli apporti provenienti trasversalmente anche dall’opposizione più costruttiva, in una prospettiva capace di superare anacronistici steccati ideologici e ricercare realmente il bene comune. Sotto questo profilo, le numerose proposte di legge che nei casi di licenziamento introducono un sistema di indennizzo economico in luogo della “reintegrazione”, senza più distinguere le tutele in base al numero di addetti del datore di lavoro, ma semmai graduando l’indennizzo in ragione dell’anzianità di servizio del lavoratore, appaiono certamente apprezzabili e possono portare a soluzioni legislative condivise che tutelino da una parte il lavoro e dall’altra la libertà di impresa e la responsabilità dei soggetti in gioco.

Viceversa, ciò che appare meno convincente in alcuni disegni di legge è l’intento di condizionare una più realistica ed equilibrata disciplina dei licenziamenti all’introduzione della nuova forma onnivora del “contratto unico”, che dovrebbe azzerare e sostituire tutte le forme alternative di lavoro, comprese quelle che nel tempo hanno dimostrato un’oggettiva utilità e rispondenza a diverse esigenze di fatto e che dovrebbero semmai essere ulteriormente rilanciate (è certamente il caso dell’apprendistato, ma anche della somministrazione, dei contratti a termine e dei tirocini formativi).

Da questo punto di vista, è quindi condivisibile quanto ha scritto Cazzola su queste pagine laddove ha osservato da un lato che la “semplificazione dei vari contratti di lavoro” (che è cosa ben diversa dal solo “contratto unico”) costituisce “un passo avanti rispetto alla situazione vigente”, e dall’altro chel’anello che manca è una riforma equa ed equilibrata dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che preveda la reintegra soltanto nei casi di licenziamenti discriminatori, fermo restando il risarcimento del danno nelle altre fattispecie.

Su queste tematiche di stretta attualità e che riguardano la prospettiva del nostro Paese tutte le parti sono chiamate a prendere posizione con responsabilità, partendo proprio dai punti condivisi, anche per non permettere che tutto il dibattito sul lavoro possa ridursi a un “aut aut” sul conflitto scatenato dal “caso Fiat”: dentro e fuori le aule di giustizia.