Un tema che si sta facendo sempre più insistentemente largo, anche nell’ambito del diritto del lavoro, è quello della natura discriminatoria o meno di leggi, regolamenti, accordi sindacali, prassi, atti e comportamenti aziendali. Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.



A livello nazionale, il principio di parità di trattamento è sancito dal Decreto legislativo n. 216/2003, che vieta in generale qualsiasi forma di discriminazione diretta (che si verifica “quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”) e indiretta (che si verifica “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”); ed è sancito anche dal Decreto legislativo n. 198/2006, con specifico riferimento al divieto di discriminazione, diretta e indiretta, nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori in ragione del sesso.



Ora, il rischio che spesso si corre, quando si deve stabilire in concreto se un atto o comportamento aziendale contrasti o meno con il divieto di discriminazione, è di perdere di vista la totalità dei fattori in gioco, enfatizzando un singolo fattore e trascurando di considerare tutti gli altri. Non sempre una situazione di disparità di trattamento assume i connotati della discriminazione illecita. La stessa normativa nazionale (ed europea) sancisce espressamente che “non costituiscono atti di discriminazione […] quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.



La normativa fa salve anche “le disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell’età dei lavoratori e in particolare quelle che disciplinano: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, allo scopo di favorire l’inserimento professionale o di assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione, basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o sulla necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento, purché siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalità legittime, quali giustificati obiettivi della politica del lavoro, del mercato del lavoro e della formazione professionale, qualora i mezzi per il conseguimento di tali finalità siano appropriati e necessari”.

Non costituiscono atti di discriminazione neppure “le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.

Più in generale, la normativa prevede che non costituiscono atti di discriminazione “quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”.

Un problema di rilevante interesse, anche in considerazione della grave situazione di crisi che attraversa il Paese e del ricorso sempre più massiccio da parte delle aziende alle procedure di riduzione di personale, si è posto con riferimento alla legittimità o meno del criterio di scelta del personale da licenziare costituito dal possesso dei requisiti per il diritto a pensione, solitamente previsto dagli accordi sindacali sottoscritti a conclusione delle procedure. Secondo alcuni, l’adozione del criterio in esame rappresenta un fatto di discriminazione indiretta in ragione dell’età (determinando una situazione di svantaggio per i lavoratori di età più elevata rispetto ai lavoratori più giovani) o in ragione del sesso (determinando una situazione di svantaggio per le lavoratrici rispetto ai lavoratori in considerazione della diversa età pensionabile delle donne rispetto agli uomini).

Su entrambi i profili si è recentemente pronunziata la Corte di Cassazione con sentenza n. 1949/2011, affermando il principio secondo cui il ricorso al criterio costituito dal possesso dei requisiti per il diritto al trattamento pensionistico, per individuare il personale da licenziare, è razionalmente giustificato e non discriminatorio, senza che assuma rilievo la circostanza che non sia operata alcuna distinzione tra pensione di anzianità e vecchiaia, con conseguente coinvolgimento dei lavoratori di bassa pensione, dovendosi operare il raffronto con i lavoratori più giovani. La Corte di Cassazione ha ulteriormente rilevato che non rappresenta una discriminazione il mancato ricorso alla differenza tra la posizione dei lavoratori maschi e quella delle donne, svantaggiate in considerazione dei più bassi limiti di età richiesti per il loro pensionamento, dovendo la posizione di queste ultime essere riguardata in relazione a quella delle altre donne e degli altri uomini che non possono accedere alla pensione.

Principi analoghi a quelli sanciti dalla Cassazione sono contenuti anche in una recente sentenza della Corte di Appello di Firenze (che ha rigettato un ricorso proposto dalla Consigliera della Parità della Regione Toscana). La Corte di Appello di Firenze ha osservato, in particolare, che la diversa età pensionabile tra uomini e donne è il frutto di una scelta insindacabile del legislatore, del tutto estranea alla volontà aziendale; e ha ricordato il principio, sancito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 335 del 24/07/2000, secondo cui “l’aver mantenuto per le donne un’età pensionabile più bassa di quella degli uomini costituisce una sorta di ‘privilegio’ per le prime, non in contrasto con l’art. 37 cost.”.

La Corte di Appello di Firenze ha poi ulteriormente osservato che la sussistenza dei requisiti per accedere alla pensione di anzianità o vecchiaia serve a scegliere tra gli esuberi ai fini del licenziamento: sarebbe irrazionalità e ingiustizia manifesta consentire a chi abbia raggiunto i requisiti per il diritto a pensione di sottrarsi alle conseguenze collettivamente previste semplicemente allegando di essere donna e ritorcendo contro le altre donne e gli altri uomini che non possono accedere alla pensione il “privilegio” che l’ordinamento riconosce alle donne lavoratrici di potere andare in pensione prima degli uomini. Perché, come ha rilevato anche la Corte Suprema, la posizione delle lavoratrici non può non essere “riguardata in relazione a quella delle altre donne e degli uomini che non possono accedere alla pensione”.

Al di là dei casi pratici sui quali sono state chiamate a pronunziarsi, le recenti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Firenze rappresentano due significativi esempi di un modo corretto di affrontare il problema dei diritti della persona, che tiene conto di tutti i fattori in gioco e che, in particolare, non trascura di considerare il contesto e la trama dei rapporti nei quali la persona è inserita.