Una recente sentenza della Cassazione (n. 1230 del 20 gennaio 2011) ha statuito che “la mancata presentazione del modello DM/10 configura la fattispecie della omissione – e non già della evasione – contributiva”, prevista dall’art. 116, comma 8 lettera a), della legge 23 dicembre 2000, n. 388.
Per quanto “tecnica”, la decisione merita di essere richiamata da queste pagine tanto per l’interesse specifico che può assume per gli imprenditori e i datori di lavoro, soprattutto se i giudici di legittimità confermeranno nel tempo questo orientamento, quanto per ciò che la questione risolta rivela del modo di concepire la realizzazione dei propri compiti istituzionali da parte del più importante ente previdenziale italiano.
La questione riguarda le sanzioni che la legge prevede nell’ipotesi in cui un datore di lavoro non osservi, anche parzialmente, i diversi obblighi imposti per garantire il pagamento della contribuzione dovuta all’ente previdenziale. Di tali obblighi faceva parte, fino al 31 dicembre 2009, la compilazione del DM/10, modello da compilare e inviare per via telematica mensilmente all’Istituto nazionale di previdenza sociale (Inps) per denunciare le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e i contributi dovuti, da pagarsi poi attraverso il modello F24. Dal 1° gennaio 2010, in realtà, il DM/10 è stato sostituito da un diverso sistema di comunicazioni all’ente previdenziale, ma la circostanza non toglie l’attualità e la persistente rilevanza della decisione richiamata.
Una disposizione di legge del 1996 distingueva tra l’ipotesi, meno grave, dell’omissione contributiva – indicata come “mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie” – e quella della evasione contributiva – sussistente, invece, in presenza di omissione o non conformità al vero di registrazioni o denunce obbligatorie -, assoggettata a una sanzione pecuniaria ben più consistente di quella applicabile alla prima.
Ora, da sempre, l’Inps ha ricondotto alla più grave sanzione per l’evasione contributiva la mancata o tardiva presentazione del modello DM/10, anche qualora i dati necessari per determinare la misura della contribuzione dovuta fossero comunque ricavabili dagli altri obblighi di denuncie e/o registrazioni correttamente adempiuti dal datore di lavoro. Interpretazione, questa, confermata nel 2005 dalla Cassazione a Sezioni Unite, per la quale la fattispecie dell’omissione contributiva deve ritenersi limitata all’ipotesi del (solo) mancato pagamento da parte del datore di lavoro, in presenza di tutte le denunce e registrazioni obbligatorie necessarie, mentre la mancanza di uno solo degli altri, necessari, adempimenti è sufficiente a integrare gli estremi dell’evasione.
In altri termini, l’evasione si presumeva per il semplice fatto che, nonostante la loro conoscibilità di principio, le informazioni necessarie a quantificare il debito contributivo non fossero effettivamente conosciute dall’Inps. Ne conseguiva la sostanziale irrilevanza dell’ipotesi meno grave, anche a fronte di comportamenti del datore di lavoro non connotati da alcuna volontà di evadere.
Per superare questa situazione, nel 2000 il legislatore ha modificato la disciplina originaria e ha distinto le due fattispecie sanzionatorie precisando che l’omissione o non conformità al vero delle registrazioni o denunce obbligatorie configura l’evasione contributiva soltanto quando “il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate”.
È di questa norma che la sentenza in apertura richiamata ha fatto applicazione, osservando che, a prescindere dall’elemento intenzionale, “non si può sostenere che venga occultato il rapporto di lavoro o le retribuzioni erogate in tutti i casi in cui questi dati, ancorché non risultanti dalla denunzia risultino però dalle registrazioni obbligatorie”. Non si tratta di un esito scontato, pur rispetto alla modifica del testo di legge, e i probabili successivi pronunciamenti dei giudici di legittimità saranno fondamentali per comprenderne la tenuta.
In una precedente decisione del maggio 2010 della stessa Corte di Cassazione si legge, infatti, che “l’omessa denuncia all’Inps di lavoratori, benché registrati nei libri paga e matricola, configura l’ipotesi di evasione contributiva” e, anzi, si afferma che tale omissione “fa presumere l’esistenza della volontà del datore di lavoro di occultare i rapporti di lavoro al fine di non versare i contributi, restando così a carico del perseguito l’onere di provare la sua buona fede”. Dal canto suo l’Inps non ha modificato il proprio indirizzo interpretativo, continuando a ritenere la mancata presentazione della denuncia un’ipotesi di evasione contributiva.
Così sinteticamente illustrata la questione, proviamo a coglierne alcune implicazioni pratiche e di ordine più generale. Sotto il primo profilo, la sentenza valorizza un’equilibrata considerazione di entrambe le ipotesi sanzionatorie, rispetto a una valutazione sbilanciata nella direzione dell’evasione. Si noti che anche l’omissione è sanzionata pecuniariamente, sia pure in misura più contenuta dell’evasione; l’alternativa, dunque, attiene all’entità della sanzione e ciò significa che se l’ordinamento esprime così un giudizio di disvalore, prima sociale e poi giuridico, su entrambi i comportamenti, ne riconosce, al contempo, la possibile diversità di significato complessivo.
Come dire che errare humanum est ed è proprio di un elementare senso di giustizia distinguere tra situazioni “apparentemente” identiche nelle loro caratteristiche materiali. Certo, ciò non significa che ai datori di lavoro onesti non sia comunque richiesta la massima attenzione nel rispetto degli adempimenti di legge: come continua il detto, perseverare nell’errore è diabolico e non si può escludere la rilevanza di una pluralità di comportamenti omissivi per integrare la volontà di occultare.
Sotto il secondo profilo, invece, si deve rilevare come l’enfasi posta sull’evasione contributiva dall’ente previdenziale poggi sull’inconfessata negazione di quel senso di giustizia e si cristallizzi nella “presunzione” di assegnare ai fatti materiali un unico e univoco significato. Si tratta, cioè, prima che di una presunzione nel senso palesato dalla sentenza del maggio 2010 sopra richiamata, che è soltanto una conseguenza logico-giuridica, di una presunzione razionalistica che fissa apriori il valore di una data realtà, riducendola a ciò che appare e cristallizzandola nei suoi elementi di fatto.
Il che, più che il frutto di una esplicita volontà e di una consapevole valutazione negativa, pare essere l’esito di contesto culturale, una mentalità ormai naturalmente dominante. Ma i suoi effetti sono tanto più gravi quando essa determini il modo di rapportarsi del soggetto pubblico con il cittadino, soprattutto se quel soggetto persegue una finalità, quella previdenziale, in cui gioca un ruolo predominate la dimensione solidaristica (tema, anche questo, meritevole di qualche considerazione).
Quale polis, quale senso di appartenenza, quale capacità di condivisione, può edificare un’amministrazione che guarda con sospetto i propri cittadini/utenti e un’azione pubblica ispirata a logiche conflittuali e divisorie?