L’ultima scossa all’attuale assetto delle relazioni industriali è arrivata pochi giorni fa, con l’annuncio da parte di Marchionne di voler dare formale disdetta del Ccnl Metalmeccanici del 2008 e di voler revocare l’adesione di Fiat a Confindustria: si tratterebbe dell’ennesimo escamotage giuridico finalizzato a scardinare lo “storico” sistema di relazioni industriali vigente nel nostro Paese e che potrebbe condurre a conseguenze giuridiche (e non solo) imprevedibili.
Vista la complessità delle iniziative che provengono ormai da tutte le parti sindacali (è di lunedì la notizia che anche il Segretario generale della Uil ha disdettato lo “storico” Accordo interconfederale del 1993), è utile anzitutto chiarire le questioni in gioco, a partire da un breve glossario del termini ormai quotidianamente utilizzati dai media.
Quando si parla di “rappresentatività sindacale” si intende la capacità del sindacato di rappresentare i lavoratori all’interno di una determinata categoria (metalmeccanici, commercio, credito, ecc.) ovvero sul piano generale, come avviene per le Confederazioni sindacali. Attualmente, salvo casi particolari (come, ad esempio, nel “pubblico impiego”), non esiste una legge che determini la modalità di misurazione della “capacità rappresentativa”, sicché la misura e l’ampiezza della rappresentatività sindacale sono oggi empiricamente determinate – in sede giudiziaria ovvero nella prassi delle stesse parti sindacali o politiche – sulla base di alcuni indici più o meno concorrenti, quali il numero delle tessere dei lavoratori iscritti, la capacità di promuovere scioperi o altre forme di protesta, la sottoscrizione di contratti collettivi ai vari livelli di contrattazione, il consenso in votazioni referendarie, la capacità di cooptare propri membri al Cnel, nelle rappresentanze sindacali aziendali o in altri organismi rappresentativi.
Altra cosa rispetto alla “rappresentatività sindacale” è la cosiddetta “rappresentanza sindacale”, che riguarda la possibilità per un sindacato di eleggere all’interno dei luoghi di lavoro propri rappresentanti, ai quali la legge o il contratto riconoscono determinati diritti per la promozione dell’attività sindacale (permessi, indizione di assemblee, consultazione, informazione, ecc.): si tratta, per intenderci, dei diritti che a rigore non dovrebbero essere attribuiti presso le newco Fiat di Mirafiori e Pomigliano alla Fiom-Cgil, in quanto non firmataria dei contratti collettivi ivi applicati.
Connesso al tema della rappresentatività sindacale è quello dell’efficacia cosiddetta erga omnes dei contratti collettivi, prevista addirittura dall’art. 39 della Costituzione, rimasta inattuata ope legis, ma finora garantita nei fatti dall’azione unitaria dei maggiori sindacati e dalla sottoscrizione congiunta dei principali contratti collettivi. Proprio tale efficacia generale è oggi compromessa dalla sottoscrizione di accordi cosiddetti “separati”, non sottoscritti dalla Cgil.
Ultima espressione da chiarire è la cosiddetta “riforma degli assetti contrattuali”, che allude alla modifica dell’Accordo interconfederale del 23/07/1993 firmato da Cgil, Cisl e Uil, Confindustria e dall’allora Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, che pose alcune fondamentali regole sul funzionamento dei contratti collettivi (riparto delle competenze tra contrattazione di primo e di secondo livello, durata dei contratti, disciplina delle procedure di rinnovo, meccanismi di adeguamento del salario). Una prima parziale riforma è stata attuata da Cisl e Uil (ma non dalla Cgil), che con Confidustria hanno raggiunto nuove intese con l’Accordo-quadro del 2009.
L’entrata di queste espressioni nel “linguaggio comune” esprime il rischio di un collasso del sistema delle relazioni industriali che da ultimo è approdato nelle aule giudiziarie nel (vano) tentativo di trovare una qualche soluzione. Emblematica in questo senso è l’evoluzione del “caso Fiat” e più in generale dell’iter di rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici.
Nelle scorse settimane sono stati presentati dalla Fiom numerosi ricorsi tesi a lamentare la “condotta antisindacale” delle industrie metalmeccaniche (alcune delle quali del Gruppo torinese) che applicano il nuovo Ccnl “separato” del 2009. Finora, dei nove provvedimenti giudiziali noti, sei hanno visto vittorioso il sindacato (con conseguente condanna dell’azienda ad applicare il “vecchio” Ccnl) e tre hanno dato ragione all’azienda; e non è secondario osservare che anche all’interno della stessa Sezione Lavoro del Tribunale di Torino i diversi Giudici aditi hanno reso decreti tra loro contrastanti.
In questo caos giudiziario, il prossimo 18 giugno si terrà a Torino la prima udienza sull’ulteriore vertenza relativa alla legittimità del piano di ristrutturazione di Fiat che ha portato alla creazione di due nuove società (Nuova Fabbrica Italia Pomigliano e Nuova Fabbrica Italia Mirafiori Spa) per la gestione dei due rispettivi stabilimenti. Volendo riformare l’organizzazione del lavoro, ma dovendo far fronte all’oggettiva difficoltà di liberarsi da un sistema di relazioni e di accordi sindacali ancora in essere che rende assai ardua qualunque modifica senza il consenso di tutte le maggiori sigle sindacali, Marchionne ha tentato la strada della creazione di due nuove e diverse società a cui affidare la gestione degli stabilimenti: la newco, libera dai vincoli preesistenti della contrattazione collettiva discendenti dall’adesione a Confindustria, applicherà il solo contratto collettivo aziendale (Accordo separato siglato solo da Cisl e Uil), estromettendo di fatto la Fiom dalla “rappresentanza sindacale” e rivoluzionando in tal modo l’assetto tradizionale delle relazioni sindacali della più grande e rappresentativa azienda manifatturiera italiana.
È fin d’ora evidente che per la Fiat non sarà agevole liberarsi dai contratti collettivi (nazionali e aziendali) già vigenti negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori in quanto la Fiom ha rivendicato l’applicazione della disciplina – di derivazione comunitaria – sul “trasferimento d’azienda” che, stabilendo la continuità dei rapporti di lavoro e della loro regolamentazione tra la “vecchia” datrice di lavoro e la newco, garantirebbe l’applicazione, anche presso la Nuova Fabbrica Italia, dei contratti collettivi nazionali e aziendali già in vigore in Fiat fino alla loro naturale scadenza.
Dalle dichiarazioni rese in questi giorni, Marchionne non sembra intenzionato a retrocedere dall’iniziativa intrapresa e ha annunciato la scorsa settimana l’intendimento di disdettare il Ccnl Metalmeccanici del 2008 e revocare l’adesione di Fiat a Confindustria. È probabile che per formalizzare l’uscita dal sistema di relazioni contrattuali che fanno capo a Confindustria, Marchionne attenderà l’esito dell’udienza del 18 giugno, anche per verificare la tenuta sul piano giudiziario della nuova società e per avere comunque un’importante causale.
Nel frattempo, anche da Uil e Cisl è arrivata una netta presa di posizione sulla questione della riforma del sistema di relazioni industriali e degli assetti contrattuali. Lunedì, Angeletti (Uil) ha comunicato la disdetta dell’Accordo interconfederale del 1993. L’occasione è stata la trattativa per il rinnovo del Contratto collettivo del credito che l’associazione di categoria delle banche (Abi) ha dichiarato di voler rinnovare secondo il sistema di regole definito dall’Accordo del 1993 e non secondo il nuovo modello di cui all’Accordo del 22 gennaio 2009 che Cisl e Uil hanno siglato con Confindustria.
Il segretario della Uil ha precisato che “seppure la Uil consideri quel testo superato dalla riforma del gennaio 2009, al fine di evitare ogni possibile equivoco circa l’attuale applicabilità di quelle norme e di quelle procedure, si comunica la decisione della scrivente organizzazione di disdettare il Protocollo medesimo. Dunque, per la Uil e nei confronti di tutte le parti firmatarie e di quelle in indirizzo, la presente ha valore, a tutti gli effetti, di disdetta ufficiale e formale del Protocollo in oggetto”.
Nel comunicato, Angeletti ha poi apertamente espresso la necessità di pervenire a una legge sulla rappresentatività sindacale e sull’efficacia generalizzata dei contratti collettivi, in attuazione dell’art. 39 della Costituzione: questione che per oltre sessant’anni è stata elusa da parte da tutti gli attori sociali in favore di un sistema di regolamentazione della materia affidato esclusivamente alla contrattazione collettiva e ai rapporti di forza.
La posizione di Angeletti, a cui si è subito associato anche il Segretario generale della Cisl Bonanni, ha riscontrato l’estrema cautela del Ministro Sacconi, che ha sempre dichiarato di preferire che la materia della rappresentatività sia regolata d’intesa tra le parti sindacali, senza alcun intervento impositivo normativo.
Il percorso dell’intesa tra le parti sociali auspicato dal Governo costituisce certamente la via maestra, e sotto questo profilo occorre guardare agli esempi virtuosi di molte aziende (non solo medio-piccole) ove la conflittualità spesso ideologica esplosa con il “caso Fiat” è del tutto sconosciuta e dove i sindacati (compresa la Cgil) agiscono fattivamente nel rispetto dei ruoli, siglando accordi unitari applicati poi dalle aziende. Ove tuttavia il conflitto permanga, e dove le parti non riescano a superare le pur legittime divergenze alla ricerca di un bene comune (qual è certamente l’applicazione di un unico contratto nella stessa azienda) il problema della “rappresentatività” e della “rappresentanza” va comunque affrontato, anche perché la crisi economica e la competitività internazionale rendono impossibili ulteriori tergiversazioni.
In altri termini, in mancanza di un accordo tra le parti sindacali è comunque indispensabile ricercare elementi certi per stabilire quanta parte dei lavoratori di una certa categoria (o azienda) rappresenti un determinato sindacato, per poter valutare se si tratti di un interlocutore idoneo a concludere accordi collettivi anche peggiorativi, ma sufficientemente accettati di lavoratori; come accade nel “pubblico impiego”, ove la materia è regolata per legge, senza particolari problemi, fin dagli anni Novanta.
Non a caso la posizione di Confidustria, vigorosamente espressa lo scorso 13 giugno dal Presidente Marcegaglia, è quella di fare in modo che “se un’impresa sigla un accordo con la maggioranza dei lavoratori, questo deve valere per tutti. Non esiste che uno il giorno dopo si alza e mette tutto in discussione”.
L’alternativa è quella tra il dover ricercare l’unanimità del consenso sindacale per stipulare contratti collettivi, onde evitare il rischio dell’incertezza giuridica sull’applicazione di un determinato contratto collettivo, con ciò attribuendo nei fatti il “diritto di veto” ai sindacati più “conservatori” e determinando la sostanziale paralisi delle aziende, e il dover ricorrere a sofisticate costruzioni giuridiche, onde svincolarsi da una regolamentazione collettiva ormai inadeguata a superare la crisi e le nuove esigenze produttive e organizzative; con il rischio di affidare la complessa materia delle relazioni sindacali alla magistratura, come è peraltro accaduto in altri casi e in altri ambiti in questi ultimi anni (il caso Englaro docet).
Meglio dunque una legge sofferta e travagliata, se non c’è accordo tra le parti, che l’anarchia nelle aziende o il “terno al lotto” delle tortuose e imprevedibili vie giudiziarie.