Tra le misure previdenziali per la stabilizzazione della finanza pubblica contenute nel decreto legge n. 98 del luglio scorso vogliamo richiamare l’attenzione sull’aumento dell’età pensionabile per le lavoratrici dipendenti e le lavoratrici autonome iscritte a una delle gestioni pensionistiche dell’Inps e la previsione che obbliga tutti i datori di lavoro al versamento della contribuzione per il finanziamento dell’indennità economica di malattia.
Molto diverse tra loro, le due misure realizzano il comune obiettivo ottenendo, nel primo caso, una riduzione della spesa pensionistica e, nel secondo, un incremento della contribuzione raccolta. Entrambe, peraltro, sono partecipi di una vicenda legislativa assai significativa.
Com’è noto, storicamente in Italia l’età pensionabile è diversificata per gli uomini (attualmente 65 anni) e le donne (60), pur riconoscendosi a queste ultime il diritto di proseguire a lavorare fino al compimento del 65° anno di età. Questa differenza, valida per le pensioni in regime retributivo, è poi stata inopinatamente estesa, nel 2004, alle pensioni contributive, per le quali l’originaria disciplina del 1995 aveva già disposto l’equiparazione dell’età pensionabile, fissandola peraltro in modo flessibile, così da lasciare al lavoratore la scelta sul momento di uscita dal lavoro (da 57 a 65 anni di età).
Tuttavia, nel 2008, in relazione al regime previdenziale dei dipendenti pubblici, la Corte di giustizia europea ha ritenuto discriminatoria in base al sesso quella differenza, imponendo all’Italia di rimuoverla. È ciò che il legislatore ha fatto con l’art. 22 ter della legge n. 102 del 2009, per cui, dal 1° gennaio 2012 le lavoratrici del pubblico impiego matureranno il diritto alla pensione di vecchiaia al compimento del 65° anno di età.
Per il principio di eguaglianza, era sostanzialmente inevitabile che l’equiparazione si estendesse anche agli altri regimi pensionistici. D’altronde, a prescindere dalla supposta, ma invero dubbia, discriminazione, quantomeno un aumento dell’età pensionabile delle lavoratrici era imposto dall’aumento della speranza di vita, media e delle donne in particolare, e dai suoi evidenti riflessi sulla sostenibilità del sistema pensionistico.
A un simile esito è pervenuto dapprima il decreto legge citato, con una scansione temporale che potrebbe perfino far dubitare dell’urgenza dell’intervento, visto che la soglia dei 65 anni sarebbe stata conseguita fra 21 anni, nel 2032, con aumenti graduali dell’età pensionabile decorrenti dal 2020.
I noti eventi di questo ultimo mese hanno indotto il Governo ad anticipare di quattro anni il periodo transitorio: se sarà approvato dal Parlamento senza modifiche il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, infatti, l’età pensionabile delle lavoratrici sarà progressivamente incrementata di un mese dal 1° gennaio 2016, di ulteriori due mesi dal 1° gennaio 2017, di altri tre mesi dalla stessa data del 2018, di quattro dal 2019, di cinque dal 2020 e di ulteriori sei mesi per gli anni successivi fino al 2027, per giungere a regime, ai 65 anni di età, nel 2028.
Un arco temporale comunque lungo, che, per quanto possa tener conto delle aspettative delle lavoratrici, oltre alla differenza con le colleghe del pubblico impiego, dimentica soprattutto chi è chiamato a sostenerne finanziariamente i costi, gli attivi e in particolare i più giovani.
Passando al secondo profilo, occorre ricordare che un norma del 1943 esenta l’ente previdenziale, in questo caso l’Inps, dall’erogare l’indennità di malattia qualora una prestazione almeno di pari importo sia dovuta dal datore di lavoro al dipendente, in forza di una previsione di legge o del contratto collettivo. Nel 2003 le Sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che la norma non esonera comunque il datore di lavoro dal versamento della contribuzione di malattia, sostanzialmente perché, essendo la contribuzione espressione della solidarietà generale, non c’è correlazione corrispettiva fra i contributi versati e le prestazioni erogate.
Confermata nel 2008 dalla Corte Costituzionale, questa interpretazione è stata, però, contraddetta dal Governo che, nel decreto legge n. 122 del 2008, ha sancito, all’articolo 20, l’inesistenza dell’obbligo contributivo qualora il trattamento di malattia sia direttamente erogato dal datore di lavoro. Tenendo conto della durata e dell’entità del trattamento, si tratta di ipotesi probabilmente convenienti per le aziende di medio/grandi dimensioni, più che per le piccole. In ogni caso, l’accordo di rinnovo del contratto collettivo nazionale del settore terziario, sottoscritto dalle organizzazioni sindacali, ad eccezione della Cgil, il 26 febbraio di quest’anno, ha previsto la facoltà per i datori di lavoro di avvalersi della previsione di cui all’articolo 20.
Con una repentina e imprevista marcia indietro, però, il Governo, nella manovra del luglio scorso, ha reintrodotto l’obbligo contributivo per tutti i datori di lavoro, altresì con decorrenza retroattiva, dal 1° maggio 2011. In questo modo a essere “spiazzata” è l’azione di quelle organizzazioni sindacali che in questi anni hanno sviluppato un dialogo costruttivo con la compagine governativa, mentre si preclude alle imprese di realizzare una riduzione degli oneri sociali senza pregiudizio per le tutele dei lavoratori.
Si noti che, secondo i dati del bilancio Inps 2009, la contribuzione di malattia presenta un saldo attivo di 1863 milioni di euro, così come complessivamente in attivo risulta la gestione di competenza dell’ente previdenziale, quella delle prestazioni temporanee, che pur presenta una consistente riduzione degli avanzi rispetto al 2008, dovuta soprattutto all’aumento delle prestazioni per disoccupazione e integrazioni salariali causate dalla crisi.
Cosa ci dicono, allora, più in generale, queste vicende? Certo, entrambe trovano la loro principale ragion d’essere in un’esigenza, quella di “fare cassa”, che non può essere trascurata, né sottovalutata. Tuttavia, la stessa dimensione temporale della vicenda, la rapidità con cui norme vengono introdotte e subito modificate, segnala, sia pure nell’incalzare della crisi, come quella ragione debba calarsi in una visione più ampia, capace di coniugare ragionevolmente l’urgenza con l’equità del sistema previdenziale senza dimenticare, al contempo, i problemi reali della nostra economia.
In questa “ragionevole coniugazione”, allora, non può dimenticasi che l’innalzamento dell’età pensionabile non è semplicemente un’opzione possibile, ma, piaccia o meno, un’esigenza “imposta” dalla realtà dei fatti, di fronte a cui il suo rinvio è il prevalere di “egoismi”, per quanto comprensibili, più che vera solidarietà. E neppure va dimenticato che ridurre i costi per le imprese è condizione per la loro capacità concorrenziale e, perciò, per la tenuta e, semmai, la crescita dei livelli occupazionali.