L’articolo 8 del decreto contenente la manovra finanziaria-bis ha previsto che i contratti collettivi aziendali e territoriali – cosiddetti contratti “di prossimità” – possano derogare alle discipline poste dalla contrattazione nazionale e dalla legge, ivi comprese quelle sui licenziamenti. In tal modo, si vuol consentire alle Parti sociali di introdurre un ridimensionamento delle tutele dei lavoratori, per far fronte, ad esempio, a situazioni di crisi, o per incentivare nuovi investimenti e nuova occupazione.



La norma – che, salvo sorprese dell’ultima ora, la legge di conversione manterrà, pur “raffinandone” il testo – ha sollevato, anche tra i giuristi, un dibattito molto acceso, che di sicuro durerà a lungo, stante il carattere per molti versi rivoluzionario delle innovazioni previste. Ma davvero, in concreto, la norma potrà realizzare quell’effettivo sconvolgimento – da tanti temuto e da tanti altri sperato – negli assetti dei rapporti di lavoro?



A mio avviso, alla domanda va data risposta negativa, per le ragioni che mi appresto a spiegare, pur consapevole che le problematiche evocate sono ben più complesse di quanto schematicamente riassunto nei punti che seguono.

1)Iniziamo dalla previsione che “abilita” i contratti territoriali e aziendali a derogare a quelli nazionali. Qui il legislatore interferisce in una materia già oggetto dell’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, che tanto faticosamente era stato firmato anche dalla Cgil, la quale, in tal modo, aveva mostrato di volersi liberare dall’“abbraccio fatale” della Fiom, rendendosi disponibile anche a introdurre deroghe al contratto nazionale (vedasi punto 7 dell’accordo).



Alle deroghe così introdotte, peraltro, anche in assenza di discipline di legge poteva sostanzialmente riconoscersi un campo d’applicazione generale. Salto qui molti passaggi tecnici, rilevando solo come tale efficacia generale poteva riconoscersi in forza dell’adesione alla contrattazione collettiva, contenuta ormai in tutti i contratti individuali, e grazie al venir meno, proprio in forza del suddetto accordo interconfederale, di forme di “contrattazione collettiva separata”; in parole povere: quell’accordo già consente di aggirare, per le deroghe al contratto nazionale, il problema dell’efficacia erga omnes, che invece, come si vedrà, rimane per le deroghe alle discipline di legge.

Il testo dell’articolo 8, risultante dagli emendamenti sinora apportati, in effetti richiama l’accordo interconfederale, ma ciò non fa venir meno il difetto di fondo di tale parte della norma, che, volendo interferire nelle dinamiche interne della contrattazione collettiva, finisce solo per complicare inutilmente il quadro normativo già esistente. Tanto che, alla fine, il suo unico reale effetto (come dimostrano i fatti di questi giorni) è quello di ricacciare la Cgil su posizioni massimaliste.

2) Ma ben più gravi sono le “falle” della previsione che consente di introdurre deroghe a disposizioni di legge sinora inderogabili. È anzitutto evidente come, in questo caso, il legislatore pretenda di delegare alla contrattazione compiti che spettano a lui: privo della forza politica necessaria per avviare una seria azione di rimodulazione delle tutele, esso non trova di meglio che passare la “patata bollente” ai sindacati. E ciò senza minimamente preoccuparsi se questi avranno comunque la capacità (e la voglia) di occuparsene.

Per quanto attiene, in particolare, alla valutazione dell’effettiva capacità dei contratti collettivi di derogare alla legge, il legislatore innanzitutto “dimentica” che ognuno di questi potrà essere dichiarato nullo o inefficace da qualsiasi Giudice del lavoro, per una molteplicità di vizi, che potranno essergli riferiti, senza neppure scomodare i profili di incostituzionalità dell’articolo 8.

E, invero, lo stesso articolo 8 prevede (e non poteva essere altrimenti) una serie di limiti – quali, in particolare, quelli derivanti dalle norme costituzionali e comunitarie, nonché dalle convezioni internazionali -, che vengono definiti mediante clausole generali; o più precisamente con indicazioni generiche, che, inevitabilmente lasceranno grande spazio alla discrezionalità di giudizio dei Magistrati. Ma non era questo il legislatore che, nel “Collegato lavoro”, si preoccupava dell’imprevedibilità dei giudizi vertenti sulle clausole generali?

La sicurezza ostentata, ad esempio, da alcuni commentatori, nell’affermare che le deroghe alle discipline dei licenziamenti non potranno confliggere con le norme costituzionali lascia perplessi: c’è, infatti, una cospicua giurisprudenza, anche dei giudici della Consulta, che ritiene ormai costituzionalmente imposta, salve eccezioni “ragionevoli”, la predisposizione di quid minimo di tutela nei confronti del recesso datoriale; salvo il problema di identificare esattamente tale quid.

E allora è semplice ipotizzare che contratti contenenti clausole “audaci” (i licenziamenti sono solo un esempio) risulteranno facilmente esposti, in sede di contenzioso giudiziario, al rischio di declaratorie di nullità, per i casi in cui i Giudici interpretino i vincoli costituzionali in modo “solo un po’” più severo di quanto non abbiano fatto le Parti stipulanti.

Ma, se così è, l’imprenditore ha davvero interesse a mettere in cantiere, insieme al contratto collettivo “in deroga”, i connessi rischi giudiziari?

 

3) C’è poi un ulteriore problema – tra i tanti – che la norma, per come strutturata, risulta incapace di risolvere in modo affidante: e cioè quello della efficacia erga omnes dei contratti in discorso, i quali, per risultare utili, dovranno poter essere applicati, come appunto prevede l’articolo 8, anche nei confronti “di tutti i lavoratori interessati”, compresi i non iscritti ai sindacati firmatari.

Occupiamoci, sempre per semplificare, della posizione di questi ultimi (ma anche gli iscritti potrebbero dire la loro). L’efficacia erga omnes (ma anche, va ritenuto, la validità) dei contratti in discorso è subordinata – nel testo che dovrebbe risultare all’esito della conversione in legge – al fatto che essi siano sottoscritti da “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti” e “sottoscritt(i) sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”.

Chiunque si occupi un po’ di diritto del lavoro sa bene che tali criteri (peraltro indicati in modo piuttosto approssimativo) sono diversi da quelli che l’articolo 39 della Costituzione prevede per poter conferire efficacia generale ai contratti collettivi. È vero che, nel corso degli anni, la giurisprudenza, anche costituzionale, mentre continuava a ribadire il principio per cui è illegittimo imporre l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi con meccanismi diversi da quelli previsti dall’articolo 39, di fatto quello stesso principio costantemente aggirava. Ma ciò quella giurisprudenza ha fatto quando ha potuto accampare “scuse giuridiche” che le consentiva, ad esempio, di affermare che i soggetti non iscritti ai sindacati non venivano obbligati, ma “aderivano liberamente” a quei contratti (per esempio: la giurisprudenza sugli sgravi contributivi, sugli appalti e sui benefici finanziari e di altra specie; o sulla “adesione” alla contrattazione da parte dei pubblici impiegati); o di assicurare una maggior tutela ai lavoratori (giurisprudenza sull’efficacia generale del contratto aziendale migliorativo rispetto a quello nazionale); o di ammettere che i contratti collettivi possano integrare le discipline di legge, quali “fonte di diritto extra ordinem […] quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformità […] in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro” (Corte cost. n. 334 del 1996).

Nessuno di tali argomenti sembra riferibile alle previsioni dell’articolo 8 del decreto. È quindi prevedibile che, di fronte a lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, che lamentino la violazione dei loro diritti, la giurisprudenza nuovamente si “ricordi” dei paletti imposti dall’articolo 39 della Costituzione, e che quindi sollevi, nei confronti dell’articolo 8, questione di costituzionalità.

 

4) Si può, dunque, affermare che l’articolo 8 è davvero una brutta norma. E ciò non per sollevare critiche ideologiche alla finalità che detto articolo sembra (il condizionale, anche qui, è d’obbligo) voler perseguire: e cioè quella di rimodulare le tutele, allo scopo sia di ridurre il gap che separa molti occupati iper-protetti dai disoccupati-esclusi dal mercato del lavoro, sia di incentivare le imprese ad assumere (a proposito: le imprese assumono non solo e non tanto perché si licenzia più facilmente, ma perché c’è la prospettiva di far soldi; le modifiche al diritto del lavoro, quindi, possono certamente aiutare l’economia, ma da sole non la rilanciano).

In realtà, il vero limite della norma sta proprio nella sua incapacità di assicurare quelle finalità, anzitutto perché, come si è sin qui cercato, pur sommariamente, di dimostrare, essa è tecnicamente sbagliata.

5) D’altronde, vi sono serie ragioni che inducono anche a pronosticare che l’articolo 8 non riuscirà neppure ad avere attuazione pratica; o che comunque sarà attuato solo in casi limitatissimi. Si è già detto che detto articolo abilita alla sottoscrizione dei contratti di prossimità – direttamente o mediante le rappresentanze aziendali – i soli sindacati “comparativamente più rappresentativi”.

Nel nostro diritto del lavoro, il riferimento ai “sindacati comparativamente più rappresentativi” sta progressivamente sostituendo quello, tradizionale, ai “sindacati maggiormente rappresentativi”, rispetto al quale offre un criterio di selezione più severo: non basta più, infatti, che le organizzazioni interessate siano “molto” rappresentative; ora devono essere “le più” rappresentative.

In realtà, sull’interpretazione di tale criterio non esiste, ancora, una sufficiente elaborazione giurisprudenziale; e quindi l’unico modo per star sicuri di rientrare nella previsione di legge è quello di raggruppare, per la sottoscrizione degli accordi, un numero di organizzazioni che rappresenti quantomeno la maggioranza assoluta dei lavoratori sindacalizzati. Ma questo, allo stato, è ben difficile da verificare, perché i sistemi di “misurazione” degli iscritti, previsti anche dall’ultimo accordo interconfederale, non sono operativi.

E quindi, sia la Cgil sia gli altri sindacati dissenzienti avranno probabilmente buon gioco nel contrastare la qualificazione come “comparativamente più rappresentativi” delle eventuali organizzazioni firmatarie. Ma, soprattutto, siamo davvero sicuri che tali “eventuali” sindacati – in particolare Cisl, Uil, Ugl e pochi altri – avranno voglia di prendere in mano la “patata bollente” consegnata loro dal legislatore, e sottoscrivere accordi in danno dei lavoratori “iper-protetti”, i quali poi, alla fine, non sono altri che quelli più sindacalizzati? Vogliano immaginare che bella “campagna-acquisti” di tessere farebbe la Fiom, in un’azienda metalmeccanica, nella quale Cisl e Uil accettassero una deroga all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?

È dunque assai probabile che il famigerato articolo 8 rimanga solo una norma-manifesto, votata a un destino simile a quello delle norme sull’arbitrato: per le quali il numero di giuristi del lavoro (me compreso) che si divertono a scrivere articoli è maggiore di quello dei lavoratori che effettivamente quelle norme “usano”. Ci vuole ben altro, per modernizzare il diritto del lavoro.

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