Nel campo politico-sindacale e sui giornali tiene banco un dibattito, quello sulla riforma del mercato del lavoro, fondato sul nulla, ché, al di là delle intenzioni, ancora non si sa come concretamente il Governo intenda intervenire. Tanto più surreale e non poco ideologica appare allora la riduzione che, concentrandosi su un’unica norma, l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, quel dibattito sta operando di un problema molto più ampio e concreto: la rigidità di un sistema ipertrofico nel tutelare alcuni dimenticando i più e altresì incapace di adeguarsi tanto ai cambiamenti globali quanto alla poliedrica realtà nazionale, coniugando la tutela dell’uomo che lavora con la capacità produttiva delle imprese.
Nel frattempo, però, qualcosa è cambiato nella disciplina dei licenziamenti e non solo: dal 31 dicembre scorso, infatti, hanno acquisito efficacia le nuove regole sul termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento, introdotte dall’articolo 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, più nota come “Collegato lavoro”, che ha, al riguardo, modificato l’articolo 6, comma 1, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Poiché si tratta di novità rilevante, che tocca nel concreto la possibilità del lavoratore di far valere le proprie ragioni in caso di licenziamento ritenuto illegittimo, è bene evidenziare cosa cambia rispetto al passato.
Come l’attuale, anche la disciplina vigente fino al 30 dicembre prevedeva un termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento: il lavoratore doveva manifestare la volontà di contestare la legittimità del licenziamento entro tale termine, che decorre, oggi come allora, o dal momento in cui si riceve la comunicazione di licenziamento in forma scritta ovvero da quello, successivo, della comunicazione dei motivi che lo giustificano. Decorso inutilmente tale termine, il verificarsi della decadenza preclude al lavoratore di impugnare il licenziamento. La previsione di un termine di decadenza si giustifica con l’esigenza di assicurare al potere organizzativo del datore di lavoro quella certezza che è impedita dal rischio di una reintegrazione del lavoratore dopo un lungo periodo di tempo, in genere accompagnato da onerosi risarcimenti.
Oltre che attraverso il ricorso giudiziale, l’impugnazione poteva e può realizzarsi in forma “extragiudiziale”, ossia mediante un atto scritto del lavoratore al datore di lavoro, in cui si manifesta una tale volontà. Questo secondo tipo di impugnazione produceva unicamente l’effetto di precludere il verificarsi della decadenza, lasciando così al lavoratore la possibilità di agire in giudizio in un momento successivo, purché entro il termine di prescrizione quinquennale e anche oltre nel caso di licenziamento nullo. In questo caso, quindi, non poteva dirsi realizzata la finalità di certezza delle relazioni giuridiche di cui si è detto.
Proprio su questo aspetto è intervenuta la legge n. 183 del 2010, prevedendo che dall’impugnazione extragiudiziale decorra un ulteriore termine di duecentosettanta giorni entro il quale il lavoratore deve agire in giudizio oppure proporre alla controparte il tentativo di conciliazione o di arbitrato. Diversamente, qualora sia inutilmente decorso questo secondo termine, l’impugnazione pur effettuata è, secondo la legge, “inefficace”, ossia si verifica l’effetto che preclude al lavoratore il diritto di agire in giudizio. Nelle ipotesi di mancata accettazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato oppure di esito negativo degli stessi si stabilisce che il ricorso al giudice debba essere depositato entro sessanta giorni da tali eventi, sempre a pena di decadenza. La norma pone, in realtà, delicati, problemi interpretativi che non possono qui essere considerati.
Invece, ancora da ricordare è che la nuova disciplina ha un campo di applicazione molto più ampio della precedente. Da un lato, infatti, per espressa previsione di legge (articolo 32, comma 2), essa riguarda “tutti i casi di invalidità del licenziamento”. E, pur se sussistono al riguardo difformi opinioni, la formula sembra atta a ricomprendere fattispecie in precedenza sottratte al regime della decadenza, tanto in ragione della loro nullità, come il licenziamento discriminatorio, della lavoratrice madre, per causa di matrimonio, quanto della loro “inefficacia”, quale il licenziamento intimato oralmente o senza il rispetto della procedura prescritta, nonché le ipotesi di licenziamento del dirigente e per superamento del periodo di comporto.
Per altro verso, si estende a ipotesi che di per sé non si configurano come “licenziamento”, ovvero presuppongono accertamenti preliminari: a) licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; b) recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto; c) trasferimento del lavoratore dall’unità produttiva ai sensi dell’articolo 2103 cod. civ.; d) azione di nullità del termine apposto al contratto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001; e) alla cessione del contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ.; f) ogni altro caso in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
Complessivamente considerata, questa disciplina avvantaggia i datori di lavori o, forse, meglio, il sistema produttivo. Peraltro, se la riduzione dei tempi per agire in giudizio è indubbiamente un peggioramento della situazione finora goduta dai lavoratori, comunque essa non preclude loro la possibilità di far valere i propri diritti, evitando piuttosto dilazioni sovente verificatesi per lucrare sui tempi di prescrizione. La previsione di un ragionevole termine di decadenza richiederà piuttosto una valutazione della situazione dubbia meno condizionata da cambiamenti di condizioni temporalmente lontani. Un effetto indiretto dovrebbe essere la riduzione o contenimento (oggi probabilmente accentuato dalla crisi) del contenzioso.