Il nuovo regime sanzionatorio introdotto dall’articolo 32 della legge 4/11/2010 n. 183 (Collegato lavoro) in caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro aveva suscitato un vespaio di polemiche sul versante politico e acceso un vivace dibattito sul piano giudiziario. Il Governo e la maggioranza parlamentare dell’epoca erano stati accusati di aver inferto l’ennesimo schiaffo al mondo del precariato e molti autorevoli giuristi avevano sollevato svariate questioni di legittimità costituzionale. In particolare, era finita “sotto tiro” la nuova normativa concernente la misura del risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente assunto a termine.

Prima che entrassero in vigore le nuove norme, il lavoratore assunto illegittimamente a termine aveva la possibilità di agire in giudizio per ottenere il ripristino del rapporto di lavoro e il risarcimento del danno secondo le regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali. In pratica, il lavoratore poteva ottenere, a titolo di risarcimento del danno, un importo corrispondente alle retribuzioni perdute per effetto della scadenza del termine illegittimamente apposto (detratto quanto eventualmente percepito dal lavoratore per aver eseguito un altro lavoro in posizione di subordinazione o di autonomia), a partire dal momento in cui il lavoratore avesse posto a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative.

La nuova normativa ha stabilito invece un termine di decadenza per l’impugnazione del contratto a termine e ha previsto che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (il limite massimo di 12 mensilità è ridotto alla metà in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie).

Come già segnalato in una precedente occasione, alcune questioni di legittimità costituzionale della nuova normativa (con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione) erano state sollevate addirittura dalla Corte di Cassazione con ordinanza del 28 gennaio 2011. In particolare, la nuova normativa era stata sospettata di incostituzionalità dalla Corte di Cassazione perché ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale che il lavoratore poteva conseguire sotto il regime previgente. A giudizio della Corte di Cassazione, i nuovi criteri di liquidazione del danno, proprio perché incentrati sulla previsione di un risarcimento massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, potrebbero indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, tentando di prolungare la causa o addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica: il che vanificherebbe il diritto del cittadino al lavoro e minerebbe l’effettività della tutela giurisdizionale, frustrata dalla conseguente irrilevanza del tempo occorrente all’accertamento giudiziale dell’illegittimità del termine e con effetti discriminatori nei confronti di una serie di lavoratori che versano in situazioni comparabili.

In quella stessa occasione, non avevo esitato a definire “assai discutibili” le valutazioni della Corte. In effetti, a distanza di un anno, la Corte Costituzionale si è pronunziata con sentenza del 9 novembre 2011 n. 303, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Cassazione. La Corte Costituzionale ricorda anzitutto che la disciplina dettata dall’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 prende spunto dalle obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva. Tra le variabili più evidenti registratesi nella prassi, la Corte segnala l’identificazione del dies a quo del diritto al risarcimento del danno spesso ricavato da comportamenti concludenti e la determinazione del compenso percepito dal lavoratore in forza di rapporti (subordinati o autonomi) instaurati dopo la cessazione del rapporto a termine (il cosiddetto aliunde perceptum), talora esteso al guadagno che sarebbe lecito attendersi dal lavoratore diligentemente attivatosi nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, “con diversificate forme di utilizzazione del ragionamento presuntivo”. È in tale contesto, sostiene la Corte, che deve inserirsi la novella in esame, diretta a introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa e di omogenea applicazione.

Muovendo da questa ricostruzione, la Corte Costituzionale rileva quindi che “la normativa di riforma sfugge alle proposte censure di non ragionevolezza”. In termini generali, la Corte Costituzionale chiarisce anzitutto che l’articolo 32 non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Pertanto, il risarcimento ex articolo 32, commi 5 e 6, integra e non sostituisce la conversione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato (come alcune sentenze di merito erano state indotte a credere).

Quanto poi alla denunziata insufficienza del trattamento forfettario ad assorbire l’intero pregiudizio subito dal lavoratore a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio, la Corte Costituzionale precisa che il danno forfetizzato copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza, il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.

Così intesa la norma, afferma la Corte, cade l’ipotesi di paventata sproporzione dell’indennità di cui all’articolo 32, commi 5, 6 e 7, rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di un danno destinato a crescere con il decorso del tempo. E ciò, prosegue la Corte, perché l’articolo 32, ai commi 1 e 3, prevede “un termine di complessivi di 330 giorni (n.d.r. 60 giorni per l’impugnazione del termine + 270 per l’instaurazione della causa) per l’esercizio, a pena di decadenza, dell’azione di accertamento della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, fissandone la decorrenza dalla data di scadenza del medesimo. Con l’effetto di approssimare l’indennità in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza, avuto, altresì, riguardo ai principi informatori del processo del lavoro intesi ad accelerarne la definizione”; in secondo luogo, il nuovo regime risarcitorio non consente la detrazione dell’aliunde perceptum; con la conseguenza, afferma la Corte, che la nuova disciplina risulta sotto questo aspetto addirittura più favorevole al lavoratore rispetto alla disciplina previgente.

La Corte Costituzionale osserva quindi che la normativa impugnata realizza un “equilibrato componimento dei contrapposti interessi”: al lavoratore garantisce la conversione del contratto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente a un’indennità dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta; al datore di lavoro assicura invece la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo intercorrente tra la data di interruzione del rapporto e quello dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata del rapporto di lavoro. “Ma non oltre”, chiarisce la Corte, “pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die”.

Dunque: la nuova normativa realizza un “equilibrato componimento dei contrapposti interessi” del lavoratore e del datore di lavoro. A rileggere oggi certi giudizi diffusi all’indomani dell’entrata in vigore della legge, viene da pensare… Forse, anche per questo motivo, la sentenza della Corte Costituzionale non ha ricevuto dai mezzi di informazione la considerazione che meritava.