Sono ormai un po’ di anni che il pubblico impiego attrae l’attenzione del legislatore e, di conseguenza, le polemiche sui sempre più numerosi interventi finalizzati a far recuperare efficienza alle amministrazioni e, soprattutto, ad abbattere i costi che le stesse sopportano per il proprio personale. Che il tema sia caldo è confermato dalle vivaci reazioni suscitate dalla sentenza della Consulta, che pochi giorni fa ha “salvato” gli stipendi degli alti funzionari e dei magistrati dai tagli imposti da una legge del 2010. Ma non è di questo che vogliamo parlare.



Ci sono infatti provvedimenti legislativi recenti, che sul sistema del pubblico impiego avranno un impatto assai più forte, anche in ragione del numero dei soggetti interessati. Il decreto-legge n. 95 del 2012 – quello, per intendersi, dell’ormai famigerata spending review, che tra l’altro vuol toglierci la provincia da sotto casa – ha infatti imposto alle pubbliche amministrazioni un taglio degli organici in misura pari al 20% dei dirigenti e al 10% del restante personale in forza. I lavoratori del settore sono molto preoccupati… e a ragione, visto che, a meno di clamorose retromarce, l’impatto su di loro sarà notevole.



Eppure il decreto realizza tale pur pesante intervento con modalità molto equilibrate, tutelando i lavoratori pubblici molto più di quanto non accada quando i tagli del personale si realizzano nelle imprese private. Chi non creda a tale affermazione è invitato ad analizzare quella disciplina e, soprattutto, a paragonarla con quel che succede quando sono i datori di lavoro privati a sopprimere posti di lavoro.

Vedremo, alla fine, chi “vince”, in termini di maggior tutela. L’art. 2 del decreto n. 95 chiede di individuare i lavoratori in soprannumero, identificandoli innanzitutto con quelli che potrebbero andare in pensione con decorrenza non successiva al 31 dicembre 2014, utilizzando i più favorevoli requisiti previsti dalle discipline vigenti prima della riforma del dicembre scorso. Per tutti costoro, infatti, il legislatore “recupera” tali discipline, e li obbliga ad andare in pensione (tecnicamente, i lavoratori vengono licenziati, senza ulteriore motivazione, ai sensi dell’art. 72, comma 11, d.l. n. 112 del 2008, conv. l. n. 133 del 2008, con effetto dalla data del pensionamento: dunque, essi non rimangono neppure un giorno senza reddito).



Si tratta di un vero e proprio meccanismo di prepensionamento, attuato semplicemente reintroducendo i più favorevoli requisiti di accesso alla pensione previsti dalle discipline previgenti: un meccanismo del quale, invece, non potranno fruire i lavoratori privati che, da oggi e nei mesi a venire, verranno sacrificati alla crisi, e che dovranno sopportare anche l’innalzamento dell’età pensionabile introdotto dalla riforma.

Facciamo attenzione a non confondere questa disciplina con il recupero dei vecchi requisiti pensionistici previsto per salvaguardare le aspettative dei cosiddetti “esodati”, e cioè dei lavoratori che, più o meno volontariamente, si erano fatti licenziare prima del 6 dicembre scorso, pregustando una data di accesso al pensionamento poi spostata in avanti dalla riforma. Quella complicatissima questione non c’entra nulla con ciò di cui stiamo parlando, se non per il fatto che anche a (alcuni di) tali soggetti si consente l’applicazione delle vecchie discipline pensionistiche.

Qui parliamo, infatti, di coloro che, da adesso in poi, verranno coinvolti in processi di smaltimento degli esuberi di personale. Conclusione: tali processi consentono a molti lavoratori pubblici di salvarsi dalla disoccupazione andando prima in pensione; nulla, invece, è previsto per i lavoratori privati. Quindi: lavoro pubblico uno, lavoro privato zero. E palla al centro.

Gli ulteriori dipendenti pubblici che rimarranno in soprannumero, una volta smaltiti i “pre-pensionabili”, dovranno essere immessi nei circuiti di mobilità guidata, anche intercompartimentale, ovvero posti in part-time, dando priorità, in quest’ultimo caso, alle posizioni con maggiore anzianità contributiva.

V’è, quindi, un meccanismo finalizzato a consentire la rioccupazione dei soprannumerari all’interno dell’intero panorama delle amministrazioni pubbliche, che, se verrà gestito con intelligenza, consentirà sia di limitare ulteriormente gli effetti sociali negativi della cura dimagrante, sia di riequilibrare gli organici effettivi. È, infatti, a tutti noto come, se molte amministrazioni hanno i ruoli gonfiati da decenni di politiche assunzionali clientelari, alcuni uffici soffrono, invece, gravi carenze di personale, che obbligano gli occupati a trasformarsi in veri e propri “eroi”, per tirare avanti la baracca (tra i lavoratori pubblici non ci sono solo i fannulloni). Ben venga, quindi, tale meccanismo, ma con una preghiera: non si dimentichi che mobilità interna significa anche necessaria riqualificazione.

Sta di fatto che anche questa è un’opportunità in più che si dà ai lavoratori pubblici, per consentire loro di mantenere il posto di lavoro. Sotto il profilo della tutela, tale meccanismo è ben altra cosa rispetto a quanto possono offrire i servizi pubblici e privati, in termini di ausilio alla rioccupazione dei lavoratori (già) disoccupati del settore privato. Il cosiddetto welfare to work infatti, risulta spesso, soprattutto in tempi di crisi e soprattutto in molte zone d’Italia, una bella utopia. Quindi: lavoratori pubblici due, lavoratori privati zero. E ancora palla al centro.

È possibile che neppure tali operazioni siano sufficienti a smaltire la percentuale richiesta dalla legge. A questo punto, i lavoratori che rimangono ancora in eccedenza vengono definitivamente dichiarati in esubero e, di conseguenza, immessi nel meccanismo dell’art. 33, d.lgs. n. 165 del 2011, che regola la cosiddetta “mobilità collettiva” (e cioè i licenziamenti per riduzione di personale del pubblico impiego).

Come noto, quando a un lavoratore del settore privato capita la sfortuna di essere “eccedentario”, egli viene licenziato praticamente subito, e percepisce poi una indennità di disoccupazione che, per i più, dura dagli 8 ai 12 mesi. Sono pochi i “fortunati” che, coinvolti nei licenziamenti collettivi, per avere oltre 40 o 50 anni di età, possono arrivare a 24 o 36 mensilità di trattamento, ovvero a 48 se abitano nel Mezzogiorno. Questi ultimi numeri, peraltro, nei prossimi anni velocemente si abbasseranno, sino a quando i trattamenti di disoccupazione non saranno, per tutti, lunghi solo 12 mesi; ovvero 18 per i lavoratori ultracinquantacinquenni (così prevederà a regime la riforma “Fornero” degli ammortizzatori sociali introdotta con la legge n. 92 del 2012).

Per i lavoratori pubblici, invece, il suddetto art. 33 del decreto n. 165 prevede, in via generale, un “mantenimento in disponibilità” – e, quindi, ancora la giuridica continuazione del rapporto di lavoro – per 24 mesi. Tale lasso di tempo – che serve a “ripescare” i lavoratori, se nel frattempo si libera un posto presso la stessa o altre amministrazioni – viene remunerato con l’80% dello stipendio base e dell’indennità integrativa speciale e viene computato ai fini pensionistici. Tale trattamento sarà applicato anche ai lavoratori risultanti in definitivo esubero in applicazione della spending review, salvo il fatto che essi potranno vedersi prorogato detto periodo e i relativi trattamenti sino a 48 mesi, se, in quel termine, riusciranno a maturare il diritto a pensione, sulla base delle nuove discipline, introdotte con la citata riforma di dicembre.

Anche in questo caso mi pare che, complessivamente, il trattamento dei lavoratori pubblici sia decisamente migliore, rispetto a quello dei lavoratori privati. Dunque: tre a zero per il pubblico. O al massimo tre a uno, se si considera la sola, limitata area dei lavoratori assistiti dalla Cassa integrazione guadagni, per i quali tale strumento riesce (talvolta) ad “ammortizzare” un po’ più a lungo gli effetti delle crisi di impresa.

Al termine di questa sommaria esposizione, si possono, pertanto, azzardare due riflessioni.

Riflessione n. 1. Chi afferma che, in questo periodo, i lavoratori pubblici sono nel mirino ha ragione. Molto spesso sono malpagati per quello che fanno (o che dovrebbero fare: mai generalizzare); e i blocchi imposti alle loro retribuzioni non sono certo uno zuccherino. Vero è, però, che c’è chi sta peggio di loro. È sufficiente fare il paragone con l’impatto che la crisi e i licenziamenti, collettivi e individuali, per riduzione di personale, stanno avendo nei confronti dei lavoratori privati, e con la ben più limitata protezione che gli “ammortizzatori sociali” offrono a questi ultimi.

Riflessione n. 2. A ben vedere, i sindacati del settore pubblico – che sono riusciti comunque ad ottenere meccanismi di forte alleggerimento degli effetti sociali (ma anche di quelli economici) dei tagli imposti dalla spending review – non hanno fatto un cattivo lavoro per i loro rappresentanti.

Ah, dimenticavo: quegli stessi Sindacati sono stati tanto abili da riuscire a impedire che la “riforma Fornero”, che ha tra l’altro “depotenziato” l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, fosse applicata al settore pubblico. In quel settore, quindi, vige ancora il vecchio testo della norma statutaria, che lascia “stabilissimi” i rapporti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Risultato finale: quattro a zero.