La “stretta” sulle partite Iva prodotta dalla legge Fornero dello scorso giugno (legge 28 giugno 2012, n. 92, entrata in vigore lo scorso 18 luglio) continua a suscitare perplessità e critiche, acuite ora dal dubbio della sua possibile applicazione anche ai rapporti di lavoro instaurati con la Pubblica amministrazione, di cui vogliamo, in particolare, occuparci.



Ora, se in sede di gestazione della legge Fornero sul mercato del lavoro dello scorso giugno la parte più dibattuta, anche in sede mass-mediatica, è stata di certo quella relativa alla riforma della disciplina dei licenziamenti contenuta nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, invece, dopo l’avvenuto parto è la parte sul lavoro autonomo e associato, che insieme a quella sul licenziamento «ha sofferto di un sovraccarico di ideologia» (Treu), a prestarsi alle critiche più profonde.



Gli operatori del diritto a tutti i livelli palesano, invero, molte perplessità in ordine alla difficoltà di delineare e, quindi, di gestire i contratti di lavoro a progetto, a partita Iva e di associazione in partecipazione a seguito degli irrigidimenti portati dalla riforma. Le imprese temono di stipulare nuovi contratti in tali forme, a causa delle pesanti accresciute sanzioni previste in caso di loro non conformità alla nuova più stringente legislazione. Se l’intento di combattere le forme spurie e fraudolente può dirsi legittimo e condivisibile, l’eccesso regolatorio rischia di falciare anche tutta una serie di contratti genuini che, per paura di morire, non vengono fatti nascere, ovviandosi in vari modi a reali esigenze di collaborazioni autonome



Riguardo alle partite Iva, il legislatore è intervenuto al fine di “stanare” i casi di utilizzo improprio di contratti di lavoro autonomo (in cui il lavoratore risulta titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, Iva, da cui l’impropria denominazione) stipulati al posto di contratti di lavoro subordinato, oppure di contratti di lavoro a progetto. Così, come ormai è noto, in presenza di alcuni presupposti, che operano alla stregua di presunzioni legali relative, il contratto stipulato “a partita Iva” deve essere considerato quale (diverso) rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

A tal fine devono ricorrere almeno due dei tre presupposti delineati dalla legge ossia: “a) che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi; b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi; c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente”. Proprio in quanto si tratta di una presunzione legale relativa, resta in ogni caso ferma la possibilità della prova contraria a carico del committente circa la reale natura autonoma della prestazione lavorativa (art. 69bis, primo comma, d.lgs. n. 276 del 2003, rubricato “altre prestazioni lavorative rese in regime di lavoro autonomo” introdotto dall’art. 1, comma 26, della l. n. 92 del 2012, come già modificato dal cd. “decreto sviluppo” di agosto).

Occorre aggiungere che in presenza dei menzionati presupposti, il rapporto di lavoro originariamente configurato come autonomo, ma poi considerato quale rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, potrebbe inoltre giungere a essere considerato quale rapporto di lavoro subordinato. Ciò accadrà laddove il rapporto di lavoro qualificato come collaborazione coordinata e continuativa risulti privo dei requisiti di legge fissati in materia di lavoro a progetto, ovvero nel caso in cui non vi sia un progetto specifico che il collaboratore dovrebbe realizzare, sicché verrà considerato ex lege quale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 69bis, quarto comma, che espressamente richiama l’art. 69, primo comma, del medesimo d.lgs. n. 276 del 2003).

L’impatto della nuova normativa è stato, tuttavia, fortemente limitato a seguito del dibattito parlamentare, che ha prodotto stringenti regole al suo raggio d’azione, in quanto la legge ora dispone che il delineato sistema delle presunzioni non possa operare qualora la prestazione lavorativa presenti determinati requisiti di professionalità oppure al di sopra di un certo reddito goduto dal lavoratore, pari a euro 18.662,50 annui lordi (art. 69bis, secondo comma, d.lgs. n. 276 de 2003, introdotto dall’art. 1, comma 26, della l. n. 92 del 2012; inoltre ex art. 69bis, terzo comma, il sistema non opera altresì per gli iscritti ad albi o registri professionali).

In ogni caso, nel nuovo quadro in sintesi delineato si è posta la questione relativa alla possibile applicazione del nuovo sistema anche ai rapporti “a partita Iva” instaurati con le pubbliche amministrazioni, che ha indotto il Dipartimento della Funzione Pubblica con nota, prot. DFP n. 0038226 dello scorso 25 settembre 2012, a fornire un parere in merito. La richiesta proveniva dalla Provincia di Bari, che si è trovata nella necessità di dover assicurare il servizio di assistenza specialistica in favore di alcuni alunni disabili che frequentano le scuole secondarie di II grado mediante la stipula di contratti a prestazione professionale con partita Iva.

Il parere osserva che il nuovo sistema delle presunzioni (in breve sopra delineato) non trova applicazione nei confronti delle Pa, in quanto le disposizioni della riforma Fornero rappresentano per il settore pubblico soltanto “principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” e, al fine della loro applicazione a quel settore, “il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche (art. 1, settimo e ottavo comma, l. n. 92 del 2012).

Inoltre, prosegue il parere, seguendo un iter del tutto condivisibile, la disciplina relativa alle “partite Iva” in particolare è contenuta nel nuovo art. 69bis, inserito nel corpo del d.lgs. n. 276 del 2003 (cosiddetta Legge Biagi), che non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale (art. 1, secondo comma, d.lgs. n. 276/2003).

Ne deriva che le pubbliche amministrazioni possono continuare a conferire incarichi formalizzati con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, a esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei determinati presupposti di legittimità fissati dall’art. 7, commi da 6 a 6quater, del d.lgs. n. 165 del 2001 (cosiddetto Testo unico sul pubblico impiego). Un risultato del genere, derivato da chiare indicazioni legislative, non pare di per sé criticabile neanche sul piano della politica del diritto. Evita, invero, sul versante pubblico la diffusione di incertezze applicative e la conseguente implementazione del contenzioso che probabilmente ne conseguirà sul versante privato.

Peraltro, non si deve dimenticare che nell’ambito del lavoro privato controversie del genere sono tese principalmente all’accertamento di un rapporto di lavoro coordinato o, meglio, subordinato, in capo al committente/datore di lavoro. Invece, nei confronti della Pa, in virtù dello speciale regime previsto, la violazione delle regole in materia di utilizzo delle tipologie flessibili di impiego non può mai comportare la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (art. 36, quinto comma, d.lgs. n. 165/2001), in applicazione del principio dell’accesso per concorso, ex art. 97 Cost.

Se questo è vero, in ogni caso l’immunità delle pubbliche amministrazioni anche alla nuova riforma del lavoro Fornero contribuisce ancora una volta ad allargare il solco tra lavoro privato e lavoro pubblico, nella scia dell’ultima stagione legislativa, ma in decisa controtendenza alla logica della privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che aveva animato il legislatore nell’ormai lontano 1993, attraverso il d.lgs. n. 29, oggi trasfuso con le modifiche successive nel vigente d.lgs. n. 165 del 2001.

In estrema sintesi, da un lato il solco si è allargato proprio attraverso la cosiddetta Legge Biagi sul mercato del lavoro del 2003, che, come notato, non trova applicazione nei confronti dei rapporti di lavoro instaurati con la Pa, sebbene prevedesse futuri accordi di armonizzazione in materia (art. 86, ottavo comma, d.lgs. n. 276 del 2003), con formula analoga a quella prima ricordata dettata dalla legge Fornero, che, tuttavia, non ci sono mai stati.

Sull’opposto versante dell’impiego pubblico, il medesimo fenomeno di “divaricazione” si è realizzato di recente attraverso il d.lgs. n. 150 del 2009 (cosiddetta Legge Brunetta) che, animata dall’intento di porre freno ad alcune “derive” della Pa, in particolare con riguardo a una spesa fuori controllo per i rinnovi contrattuali, nonché dall’esigenza di un penetrante sistema di valutazione della performance dei dipendenti e di irrigidire il sistema delle sanzioni disciplinari a loro carico, ha delineato un nuovo sistema più rigido del precedente, caratterizzato da un ritorno a logiche “pubblicistiche”, attraverso una diffusa riappropriazione da parte della legge della regolamentazione di istituti, in precedenza devoluta alla contrattazione collettiva del settore.

Il Ministro Fornero continua in una linea coerente a dichiarare che la nuova legge va estesa anche al pubblico impiego, ma al momento l’ultimo tappa è rappresentata dalla stipula del Protocollo di intesa sul lavoro pubblico del 3 maggio 2012, firmato dai sindacati il successivo 11 maggio, trasfuso al momento in uno schema di disegno di legge delega. In particolare, per quanto attiene alle cosiddette tipologie flessibili di impiego si ribadisce la necessità di individuare e disciplinare quelle utilizzabili per esigenze temporanee o eccezionali, anche in relazione alle procedure e ai limiti di durata e, al contempo, di contrastare l’uso improprio e strumentale delle stesse, con attenzione alle responsabilità dirigenziali e alle sanzioni in caso di abuso [lettere d) ed f) della parte relativa al mercato del lavoro, trasfuso nell’art. 2, lett. d) ed e) dello schema di disegno di legge delega].

Come si può notare si tratta di indicazioni generiche, da cui non è dato individuare una precisa e definita linea di intervento. Resta il fatto che gli ultimi dati diffusi di recente dalla Cgia di Mestre mostrano che su più dei tre milioni di precari che lavorano nel Paese, uno su tre ha come datore di lavoro un ente pubblico, in particolare al Sud. La Pa resta, invero, stretta in un vortice dal quale appare davvero arduo uscire e trovare il bandolo della matassa. In mancanza di risorse si continua a procedere a divieti di assunzioni con blocco del turn over, sicché la risposta alle vacanze di organico viene spesso soddisfatta attraverso personale precario, con contratti di lavoro non standard, che operano comprensibili pressioni per essere stabilizzati.

Si disegna così un pubblico impiego come roccaforte blindata all’interno, sempre più inespugnabile dall’esterno in cerca di un’efficienza che richiama al mito dell’araba fenice.