Una recente ordinanza del Tribunale di Bologna, depositata il 15 ottobre 2012, ha acceso un nuovo focolaio di polemiche attorno alla riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di licenziamento, approvata con legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero). Il caso deciso dal Giudice del Lavoro di Bologna riguarda un licenziamento per giusta causa intimato, dodici giorni dopo l’entrata in vigore della riforma, ad un lavoratore che aveva inviato al proprio superiore gerarchico una mail ritenuta offensiva dall’azienda.



All’esito del giudizio sommario che caratterizza la prima fase della nuova procedura giudiziale introdotta dalla nuova legge, il Tribunale di Bologna ha dichiarato la illegittimità del licenziamento, condannando l’azienda alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni mensili globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, oltre alla regolarizzazione contributiva, con interessi legali e rivalutazione monetaria. Il Tribunale di Bologna premette anzitutto che la valutazione del fatto contestato al lavoratore “richiede la contestualizzazione del fatto medesimo e la sua collocazione nel tempo, nello spazio, nella situazione psicologica dei soggetti operanti, nonché nella sequenza degli avvenimenti e nelle condotte degli altri soggetti che hanno avuto un ruolo nel fatto storico in esame e nelle condotte ante fatte e nelle condotte post factum dei protagonisti”.



Nel merito, il Tribunale di Bologna rileva quindi che, “da una serena e complessiva valutazione del fatto storico che ha dato luogo al presente procedimento, emerge con evidenza la modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva ed il suo modestissimo peso disciplinare”. Le ragioni che hanno indotto il Tribunale di Bologna a ridimensionare la gravità del comportamento contestato risiedono nel fatto che il dipendente, impiegato con qualifica di Responsabile del reparto qualità, non aveva mai avuto precedenti richiami disciplinari, neppure minimi;  che la frase offensiva contenuta nella mail non era stata pronunziata a freddo, in maniera pensata e deliberata, nell’ambito di una aggressione verbale preordinata e finalizzata a ledere il prestigio aziendale, ma era stata pronunziata dal dipendente in un momento di disagio conseguente allo stress al quale lo stesso era sottoposto anche a causa delle molteplici scadenze lavorative ravvicinate ed assillanti; che la mail “incriminata” era stata inviata a fronte e nell’immediatezza di una mail del superiore gerarchico dal contenuto “palesemente ed inutilmente denigratorio e contenutisticamente offensivo della professionalità” del lavoratore; e che, peraltro, lo stesso  dipendente aveva riconosciuto l’inopportunità della propria affermazione ed aveva presentato le proprie scuse.



Passando ad esaminare le conseguenze derivanti dalla illegittimità del licenziamento, il Tribunale di Bologna si è quindi posto il problema degli effetti della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, introdotta dalla legge n. 92/2012. Com’è noto, la nuova disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori introduce, almeno “sulla carta”, due differenti regimi di tutela. Il primo regime di tutela attribuisce al lavoratore illegittimamente licenziato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura commisurata all’ultima reintegrazione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (in ogni caso, la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto). Tale regime si applica quando il Giudice accerta “che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. 

Il secondo regime si applica invece “nelle altre ipotesi in cui” il Giudice “accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”; ed attribuisce al lavoratore illegittimamente licenziato il diritto ad una indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti. 

Nel commentare il testo del disegno di legge diffuso dal Governo il 26 marzo, avevo già segnalato che le due situazioni che la riforma prefigura come di rilievo tale da comportare la reintegrazione nel posto di lavoro (insussistenza del fatto contestato e riconducibilità del fatto ad una condotta punibili con una sanzione conservativa), sono formulate in maniera così ampia da includere la quasi generalità dei casi di illegittimità del licenziamento soggettivo o disciplinare. Fino all’entrata in vigore della riforma, un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo veniva infatti dichiarato illegittimo dal giudice o perché il fatto contestato al lavoratore, astrattamente idoneo a legittimare il licenziamento, non sussisteva oppure perché veniva accertata la sussistenza di un fatto meno grave (rispetto al fatto contestato dal datore di lavoro) e non idoneo a sorreggere la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo del licenziamento. Ad esempio, un licenziamento intimato al lavoratore metalmeccanico per una “grave insubordinazione” poteva essere dichiarato illegittimo perché non c’era stata alcuna insubordinazione da parte del lavoratore o anche perché l’insubordinazione era stata soltanto “lieve” (per il che il CCNL prevede espressamente  la sanzione della ammonizione scritta, della multa o della sospensione).  In quest’ultimo caso, si soleva dire che il licenziamento era “sproporzionato” rispetto alla gravità del fatto contestato.

Ma questo è il punto: dire che il licenziamento è sproporzionato equivale il più delle volte a dire che il fatto contestato è riconducibile alle condotte punibili con una sanzione minore in base alle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili; e se anche in quest’ultimo caso il giudice deve disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, viene da chiedersi quando potrà essere liquidata soltanto l’indennità risarcitoria nella misura compresa tra 12 e 24 mensilità di retribuzione. L’ordinanza del Tribunale di Bologna non contribuisce a fare chiarezza sul punto e alimenta semmai il sospetto che la reintegrazione nel posto di lavoro continuerà a rappresentare il regime “ordinario” di tutela nei confronti del lavoratore illegittimamente licenziato. Ad alimentare il sospetto induce il rilievo dell’ordinanza secondo cui, nel caso in esame, ricorrerebbero (non una ma) entrambe le fattispecie che comportano la reintegrazione nel posto di lavoro (insussistenza del fatto contestato e riconducibilità del fatto ad una condotta punibili con una sanzione conservativa).

L’ordinanza non si limita infatti ad osservare che il comportamento contestato dall’azienda è sussumibile nella fattispecie della “lieve insubordinazione”, per la quale  il CCNL metalmeccanici prevede espressamente una sanzione conservativa (donde l’applicabilità della tutela reintegratoria, mantenuta ferma dalla riforma), ma si spinge sino ad affermare che, nel caso in esame, sarebbe ravvisabile anche una ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” (benché il fatto materiale contestato al lavoratore fosse pacifico). Secondo l’ordinanza, l’insussistenza del fatto contestato ricorre non soltanto quando non sussiste il “fatto materiale” contestato al lavoratore ma anche quando non sussiste “il fatto giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo”. A suo dire, una diversa interpretazione del nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che facesse riferimento al solo fatto materiale, “sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato, anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza o volontà dell’azione”.

Se a prevalere fosse questa impostazione, davvero la tutela risarcitoria sarebbe destinata inevitabilmente a rimanere “lettera morta”, almeno in materia di licenziamento disciplinare, e lo sforzo profuso per riformare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sarebbe stato del tutto inutile. Addirittura, l’effetto che potrebbe involontariamente scaturire dalla riforma potrebbe essere costituito da un ampliamento dei casi di illegittimità del licenziamento: per applicare la tutela esclusivamente economica si dovrebbe necessariamente accertare (seguendo il ragionamento dell’ordinanza) un comportamento esistente sotto l’aspetto materiale e rilevante sotto il profilo psicologico. Ma ciò equivale a dire che la tutela risarcitoria si applica soltanto … al licenziamento legittimo.